La scomparsa di Andreas Brehme ha riportato alla mente degli appassionati la finale mondiale del 1990, decisa proprio da un gol del tedesco
La prematura scomparsa di Andreas Brehme, stroncato da un infarto un paio di giorni fa, ha riportato alla mente degli appassionati – oltre alla sua classe e alle sue prodezze – un’intera meravigliosa stagione vissuta dal mondo del pallone sul finire dello scorso secolo.
Serio, irriducibile, munito di fiato da vendere e perfettamente ambidestro, Andi fu icona dell’Inter dei record – quella che nel 1989 tornò a vincere lo scudetto dopo un decennio di reiterate delusioni –, ma soprattutto dell’ultima Germania Ovest della storia, che nel 1990 conquistò il suo terzo titolo iridato.
Quello disputato in Italia fu tra l’altro l’ultimo Mondiale di un football ormai estinto: la vittoria valeva ancora soltanto due punti, il portiere poteva raccogliere con le mani qualsiasi tipo di retropassaggio e sulle maglie ancora non campeggiavano i nomi dei giocatori. Ma soprattutto era un gioco in cui ancora – a dispetto dello slogan ufficiale della manifestazione, che inneggiava al fair play – si poteva picchiare come fabbri ferrai: vergognosa, ad esempio, fu la caccia all’uomo riservata dal Camerun all’Argentina nella gara inaugurale disputata a San Siro.
Proprio nel Belpaese, all’epoca, giocavano i più forti e celebrati campioni a livello planetario, e non è dunque un caso se in quegli anni le squadre italiane stavano per inaugurare un’irripetibile stagione di plurime affermazioni a livello continentale: nelle settimane precedenti alla kermesse mondiale, ad aggiudicarsi addirittura tutte e tre le Coppe europee furono infatti club della vicina Penisola, una tendenza che sarebbe continuata per l’intero ultimo decennio del secondo millennio.
E a rendere così forti le formazioni italiane di quel tempo ci fu, come detto, anche Brehme: in ottima compagnia, del resto, dato che nella rosa della Germania occidentale che trionfò a Roma, oltre a lui figuravano altri quattro atleti che giocavano nel campionato italico (Berthold, Völler, Klinsmann e Matthaeus), mentre altrettanti lo avrebbero fatto immediatamente dopo la fine del torneo (Hässler, Kohler, Reuter e Riedle).
Altrettanto si può dire per l’Argentina finalista, che disputava quei Mondiali da detentrice del trofeo: nel roster albiceleste, oltre al divino Maradona, erano sotto contratto con società italiane pure Troglio, Lorenzo, Sensini, Balbo, Dezotti e il Pajaro Caniggia. E, si noti bene, era tutta gente che non militava certo in club di primo livello. Parliamo infatti di Ascoli, Lazio, Cremonese, Verona, Bari e Udinese, alcune delle quali nemmeno prendevano parte alla Serie A, bensì al campionato cadetto: giusto per rendere l’idea del livello di calcio di cui stiamo favellando.
A decidere l’esito di quell’ultimo Mondiale dell’era preistorica fu proprio il povero Andreas Brehme, che sul finire di una finale piuttosto noiosa trasformò un calcio di rigore decretato in maniera più che generosa dall’arbitro Codesal, a cui mancava indubbiamente qualche diottria, ma che era certo fornito di una teatralità nei gesti davvero esagerata: andate a rivedervi su YouTube la mimica con cui accompagnava fischi, ammonizioni ed espulsioni.
Ma, soprattutto, il messicano era l’uomo fidato a cui la Fifa decise di affidare la direzione dell’atto conclusivo, che doveva per forza risolversi col trionfo dei germanici: nessuno, ai piani alti, avrebbe infatti gradito il successo degli argentini dopo che avevano fatto fuori ai rigori in semifinale l’Italia padrona di casa, sulla quale tutti avevano scommesso quale sicura conquistatrice della Coppa.
Nessuno aveva perdonato al Ct Bilardo e ai suoi uomini quello sgarbo inatteso: benché almeno la metà dei Gauchos in campo quella sera a Roma portasse un cognome italiano – l’Argentina è per antonomasia il Paese cugino dell’Italia –, il pubblico dell’Olimpico, forse per un vizio antico, si schierò dunque compatto dalla parte della Mannschaft, e in modo indecoroso prima del match fischiò l’inno dei sudamericani, inducendo Diego a manifestare senza alcuna censura il proprio pensiero circa la reputazione delle madri degli italiani.