La terza edizione degli Europei di calcio fu caratterizzata da una semifinale vinta grazie al lancio della monetina e dalla finale giocata ben due volte
Il 1968, si sa, fu ricco di avvenimenti di enorme portata, tanto da venire spesso considerato l’autentico spartiacque politico e sociale della nostra epoca. Si tratta però di una stagione importante anche per quanto attiene al mondo dello sport. Fu infatti l’anno in cui, ad esempio, Jean-Claude Killy ai Giochi invernali di Grenoble si aggiudicò la medaglia d’oro in tutte e tre le discipline dello sci alpino. E fu pure, ovviamente, l’anno delle Olimpiadi estive di Città del Messico, ricordate per il record di Bob Beamon nel salto in lungo, per le centinaia di studenti trucidati dall’esercito in Piazza delle Tre Culture alla vigilia delle gare e per i pugni guantati esibiti sul podio dagli statunitensi Smith e Carlos, paladini del Black Power. Per quanto riguarda invece il pallone, il 1968 fu quando gli inglesi inventori del gioco vinsero finalmente – col Manchester United – la loro prima Coppa dei campioni, ma vi riuscirono grazie a un nordirlandese, George Best, che infatti quell’anno si portò a casa il Pallone d’oro.
Per ciò che concerne questa rubrica, però, quella di 56 anni fa fu soprattutto l’estate in cui andò in scena la terza edizione della Coppa delle nazioni europee, che proprio in quell’occasione mutò il nome in Campionato europeo Uefa. Organizzata dall’Italia, la kermesse manteneva la formula dei precedenti tornei, con solo quattro squadre partecipanti e altrettante partite in cartellone, anche se poi in realtà alla fine le gare furono cinque. La grande novità fu l’introduzione del Telstar, iconica sfera la cui livrea a pentagoni neri ed esagoni bianchi garantiva migliore visibilità dal divano di casa: i palloni di cuoio grezzo usati fin lì, infatti, erano difficilmente distinguibili sugli schermi delle tv in bianco e nero.
Le semifinali ebbero luogo il 5 giugno, lo stesso giorno in cui a Roma l’ex partigiano Sandro Pertini diventava presidente della Camera, mentre nelle cucine dell’Ambassador Hotel di Los Angeles veniva assassinato Bob Kennedy, candidato democratico alla Casa Bianca, in uno degli eventi che segnarono a fuoco quell’anno fatto di rivoluzioni e sogni spezzati.
A scendere in campo per prime, a Firenze, furono Jugoslavia e Inghilterra. I britannici, che partivano favoriti in quanto campioni del mondo in carica, furono sconfitti a sorpresa dai plavi. A segnare l’unica rete del match fu naturalmente Dragan Dzajic, attaccante della Stella Rossa che stava vivendo un momento magico: non a caso a fine stagione sarà terzo nel Pallone d’oro dietro il già citato Best e al divino Bobby Charlton.
Italia e Unione Sovietica – campione nel 1960 e finalista 4 anni dopo – si affrontarono invece tre ore più tardi a Napoli. Parliamo di due squadre così applicate a livello tattico da chiudere una guerra di 120 minuti senza segnare nemmeno un gol. La cosiddetta lotteria dei rigori ancora non era stata inventata, e nemmeno ci sarebbe stato il tempo per ripetere l’incontro, com’era prassi in quell’epoca lontana. E così all’arbitro Tschenscher, tedesco occidentale, non restò che sfilare di tasca un marco e domandare ai due capitani di scegliere fra testa e croce. Pare una follia, ma davvero ci fu un tempo in cui a decidere il nome di una finalista veniva delegato il lancio della monetina.
Il sorteggio, davanti a pochissimi testimoni, ebbe luogo negli spogliatoi, mentre tutti gli altri giocatori aspettavano il responso avvolti dal silenzio dei 70mila spettatori del San Paolo. Tschenscher – che resterà nella storia del calcio non solo per quel famoso lancio della monetina, ma anche per essere stato il primo a usare i cartellini (ai Mondiali del 1970) – tornò a palesarsi dopo un’eternità, scortato da Shesternev e Facchetti: ad alzare le braccia al cielo fu il terzino interista, che aveva scelto ‘testa’, e l’Italia si ritrovò in finale.
A dirigere la finalina, giocata all’Olimpico e vinta dagli inglesi sull’Urss grazie alle reti di Bobby Charlton e Geoff Hurst, fu invece il magiaro Istvan Zsolt, protagonista negli anni precedenti di un paio di curiosi episodi. Designato per Irlanda del Nord-Italia del dicembre del 1957, sorta di spareggio per l’accesso al Mondiale di Svezia dell’anno seguente, l’arbitro ungherese a Belfast non ci arrivò mai: la nebbia infatti lo aveva bloccato a Londra, dove erano stati chiusi tutti gli aeroporti. La gente, però, aveva già gremito lo stadio, e mandarla a casa senza partita sarebbe stato impensabile. E così, trovato un arbitro d’emergenza – il fornaio Tommy Mitchell – si decise di giocare lo stesso, declassando il match a gara amichevole.
Gli azzurri tornarono nell’Ulster in gennaio, per l’incontro ufficiale, vennero sconfitti e per la prima volta nella loro storia si videro esclusi dal torneo iridato. E fu proprio al Mondiale del 1958 che risale il secondo aneddoto relativo a Zsolt, quando in semifinale favorì clamorosamente la Svezia padrona di casa a discapito della Germania Ovest. Dapprima espulse solo il tedesco Juskowiak venuto alle mani con Hamrin – che invece fu graziato – e poi non punì con l’espulsione uno svedese che azzoppò Fritz Walter, il quale, non potendo essere sostituito (gli avvicendamenti ancora non esistevano), lasciò i suoi compagni in 9 contro 11, favorendo il successo scandinavo. La condotta del fischietto magiaro fu ritenuta così scandalosa che gli fu impedito di arbitrare a livello internazionale per i successivi 8 anni.
Il Maggio francese era ormai sconfinato nel giugno e da Parigi aveva raggiunto il resto d’Europa, compresa Milano, dove il giorno della finalissima dell’Europeo studenti e operai avevano eretto barricate in Via Solferino per impedire la distribuzione del Corriere della sera, considerato la voce del regime. Dell’episodio a Roma giunsero solo echi smorzati, incapaci di smuovere gli animi di nessuno, perché l’attenzione di tutti era rivolta alla partita che avrebbe potuto regalare al Paese il suo primo titolo continentale.
Forse per scaramanzia, gli italiani avevano chiesto e ottenuto che a dirigere l’incontro fosse l’elvetico Gottfried Dienst, che due anni prima, nell’atto conclusivo del Mondiale inglese, ai padroni di casa aveva portato grande fortuna. Fu lui infatti, in collaborazione col guardalinee Bakhramov (sovietico dell’Azerbaigian), a convalidare il terzo e decisivo gol dell’Inghilterra ai tedeschi occidentali, benché la palla non avesse superato la linea di porta.
Il basilese, ad ogni modo, non fu sufficiente affinché gli azzurri battessero la Jugoslavia: anzi, la partita fu largamente dominata da Acimovic e compagni, e fu soltanto per la loro imprecisione sotto porta se non si concluse con una secca sconfitta per i padroni di casa. Finì 1-1 con reti del solito Dzajic e Domenghini, e il risultato non cambiò più nemmeno ai supplementari, costringendo le due squadre – stavolta sì – a tornare in campo 48 ore più tardi.
Il 10 giugno – giorno in cui a Londra fu catturato dopo due mesi di latitanza il killer di Martin Luther King – gli slavi, convinti di poter dominare l’Italia anche nel rematch, schierarono 10/11 della stessa formazione che aveva giocato la prima finale, e infatti iniziarono a boccheggiare fin dai primi minuti. Il Ct azzurro Valcareggi cambiò invece mezza formazione, inserendo forze freschissime: i suoi uomini passarono in vantaggio già al 12’ grazie a Gigi Riva, e raddoppiarono intorno alla mezz’ora con Anastasi, che aveva esordito in azzurro proprio due giorni prima.
A dare il triplice fischio che decretava il primo successo continentale dell’Italia fu José Maria Ortiz de Mendìbil, arbitro basco di Portugalete che in Spagna tutti ricordano per essersi occupato di moviola in tv per molti anni, e per l’amore con cui accudì fino alla fine dei suoi giorni una figlia venuta al mondo con un gravissimo handicap.
Questa è la terza di sedici puntate sulla storia degli Europei di calcio che ci accompagnerà fino alla vigilia di Germania 2024.