Il 35enne fisioterapista bleniese è al suo decimo anno di collaborazione con la Federazione svizzera di sci
L’action. Lo dice così, in inglese e senza pensarci un attimo. È l’action, in particolare, che ama del suo lavoro di fisioterapista con Swiss-Ski; che per lo slancio con cui ne parla, definiremmo più che altro una passione. Questo 35enne bleniese sprizzante energia da ogni parola, ha iniziato il decimo anno di collaborazione con la Federazione svizzera di sci. Lo scorso weekend è stato a Zermatt con la squadra maschile di gigante di Coppa del mondo, che la prossima settimana partirà per il campo di allenamento nell’emisfero Sud, a Ushuaïa in Argentina. Lui non volerà dall’altra parte del Globo, poiché dopo i primi quattro anni, in concomitanza con l’inizio di un’attività in Ticino, ha optato per una collaborazione da freelance. Avrebbe potuto proseguire a tempo pieno, «ma è un incarico che richiede un impegno mentale e personale fuori di testa. Non esistono weekend o vacanze; ti chiamano, devi andare. È difficile conciliarlo con la vita privata. Per fortuna la donna poi diventata mia moglie, mi ha sempre appoggiato».
Da sei anni, sulla neve va una cinquantina di giorni a stagione, «a dipendenza delle richieste del capoallenatore in base ai bisogni della squadra e della mia disponibilità». A grandi linee affianca gli sciatori una settimana a Sölden, due a Beaver Creek, una ad Adelboden e una in Coppa Europa. «Quest’anno farò meno, per dedicare più tempo alla famiglia; tanto più che stiamo costruendo casa».
«Ho visto cadere il Carlo e ho detto: ‘Ahi…’»
Quando racconta alcuni guai fisici per i quali è intervenuto, intuisci cosa intende con action. «Ho seguito sul campo cinque crociati acuti». Ha cioè assistito dal vivo a cinque rotture del legamento crociato. «Questo tipo di situazioni in acuto mi ha arricchito, aiutandomi a capire l’attimo dell’infortunio, che in studio o in ospedale si osserva raramente. In quei momenti il primo pensiero è mettere in sicurezza zona e atleta, andare sul posto e valutare se sia il caso di chiamare pattugliatori o Rega». Swiss-Ski prevede che l’atleta possa essere toccato dal medico della squadra o dal fisioterapista o, se assenti entrambi, dall’allenatore. «Gli Usa, invece, lo consentono solo ai pattugliatori della pista».
Dei crociati che ha visto ‘saltare’, anche «quelli del Carlo». Il Carlo è Janka, infortunatosi al ginocchio destro a Diavolezza alla vigilia dell’avvio di stagione a Sölden. «Ero con l’allenatore e quando lo abbiamo visto cadere, ci siamo detti “Ahi...”. L’infortunio del Carlo non è raro, «anzi è un problema presente e grave. Gli atleti esercitano pressioni talmente forti, che basta un niente. Il crociato ‘salta’ quando lo sci resta appoggiato sulla neve e il ginocchio va in valgo (posizione a x), provocando una torsione». Il recupero post operatorio è lungo, almeno sei mesi, e complicato; e per un anno il rischio di rirottura è elevato indipendentemente da tecnica operatoria, bravura del medico e fisioterapista, impegno dell’atleta a seguire il protocollo. «Per queste lesioni c’è una componente fisiopatologica: che si sia sedentari o sportivi, forza muscolare a parte il corpo lavora allo stesso modo. Credo ci sia anche una predisposizione al talento. Cioè: la maggior parte degli atleti per raggiungere il massimo delle proprie prestazioni, deve spingersi al limite e se lo oltrepassa, ‘l’elastico’ si spacca. Una persona dotata può invece ottenere ottimi risultati senza arrivare all’estremo delle sue possibilità. Poi certo, in gioco entrano fattori come ambiente, stanchezza, condizioni atmosferiche. Mentre secondo me l’evoluzione dei materiali cambia il tipo di infortuni, ma non il numero. In passato si verificavano più fratture, oggi più lesioni molli come, appunto, i legamenti».
Nel «fondamentale» equilibrio tra performance sportiva e salute, «io sono dalla parte della seconda, l’allenatore della prima. In stagione questa bilancia può pendere da una parte o dall’altra ed è essenziale il contatto diretto tra coach e terapeuta o medico, per decidere tipi di allenamento e gare da far fare, affinché non siano messi a repentaglio lo stato di salute o il quadro clinico dello sciatore. Facile a dirsi, non sempre a farsi; e in queste situazioni il terapista deve usare il pugno di ferro. Faccio un esempio: una volta assistetti alla caduta di uno sciatore, che picchiò la testa. Quando lo soccorsi era irrequieto, poi diventò sonnolento. L’allenatore mi disse di portarlo in albergo; io, in base al protocollo della Federazione internazionale di hockey in caso di trauma cranico, chiamai l’elicottero per ricoverarlo, nonostante la contrarietà del coach. Quell’atleta restò una settimana in ospedale».
Un decennio di esperienza a più livelli, gli fanno dire come «fondamentale sia lavorare su e con i ragazzi per prevenire gli infortuni», che non sono un problema solo di chi compete in Coppa del mondo. «Un buon 80 per cento dei giovani che corrono in Coppa Europa ha già avuto guai fisici: lussazioni di spalla, rotture di crociati, infortuni alla schiena. Gli altri, coloro che non hanno mai avuto incidenti, non conoscono il dolore, acuto o cronico che sia. Sono perciò più liberi mentalmente e sciano non condizionati né dal ricordo, anche inconscio, né dal male. È inevitabile che chi torna dopo un infortunio grave, all’inizio ne sia influenzato; succede pure ai grandi campioni. La conseguenza è che si allungano i tempi di recupero. Evitare di farsi male, fa guadagnare anni nella carriera di un atleta».
Nella gestione di un incidente, importante quanto la presa a carico fisica è il sostegno psicologico. «Già nella formazione di base da fisioterapista, poi anche nei corsi proposti da Swiss-Ski, si viene preparati in tal senso. A volte può bastare una sola parola, purché giusta e detta al momento opportuno. La base è essere sempre positivi e rassicurare sulla progressione della riabilitazione e sui risultati che si stanno ottenendo. Che si abbia a che fare con uno sportivo o no: non ci si deve infatti mai dimenticare che l’atleta è comunque un paziente. Non è facile non varcare il confine, tanto più in un mondo come lo sci in cui i momenti condivisi sono parecchi. Il rischio è di scivolare nell’amicizia. Dico rischio perché se sei amico, non puoi fare bene il tuo lavoro. Se si ha una figura professionale di persona che cura, ritengo che non si possa poi uscire a bere una birra insieme. Questa, perlomeno, è la mia filosofia: avere empatia, conservando una certa distanza. Così si mantiene il rispetto reciproco, cosa che, oltretutto, migliora l’aspetto terapeutico». Giusta distanza, dunque, ma non distacco. «Quando uno sportivo si fa male, è importante mantenere il contatto con lui. Gli atleti investono tutto il loro tempo sul proprio fisico: se questo si spacca, il burnout è dietro l’angolo. Un curante può influire molto sugli atleti a livello mentale. Deve quindi avere come linea guida quella di non privilegiare i propri interessi, bensì quelli dello sportivo e del suo benessere psichico».
Sportivi anche quando si dorme
Negli anni Fabio Truaisch si è interessato anche alla preparazione fisica e alla fisiologia nell’ambito sportivo, oltre che all’alimentazione. «Tutti aspetti che aiutano il lavoro del terapeuta, pure in ottica di prevenzione degli infortuni. L’atleta dev’essere professionista non solo sugli sci o in palestra, ma 24 ore al giorno. Quanto la preparazione atletica, contano quel che si mangia, come e quanto si dorme, cosa si fa dopo l’allenamento. In poche parole l’igiene di vita, la cui importanza va fatta capire ai giovani». Un discorso che nel 2011, durante il mese pre stagione in Nuova Zelanda, i rossocrociati junior poterono sentire dall’autorevole voce di Massimiliano Rosolino, pluridecorato nuotatore italiano. «Si allenava per le Olimpiadi di Londra e mi chiese di essere suo fisioterapista in quei giorni. Fu un confronto fruttuoso ugualmente per me: vedere all’opera un campione di un altro sport, mi aveva fornito indicazioni utili per lo sci».
Tra le foto che ci mostra per raccontare il suo viaggio professionale sulle piste di mezzo mondo – da Åre in Svezia a Copper Mountain negli Usa –, spunta il visino della figlia di tre anni. «La porterò a fare sport, ma non la spingerò alla competizione – ride –, perché ci sono dinamiche troppo fuori di testa. Nell’agonismo il dolore è costantemente presente ed è quello che fa abbandonare. Prendi Beatrice Scalvedi, che ho seguito parecchio. Lei ha capito che il suo fisico non la ‘seguiva’ e ha dunque deciso di smettere. Una scelta difficile segno di maturità, intelligenza e rispetto del proprio corpo non comuni. No no, non sarò io a esortare mia figlia alle gare». Parola di papà. E di fisioterapista in action.