Dalle prime Olimpiadi invernali in terra asiatica la delegazione rossocrociata tornò con 10 medaglie (4 d’oro, 3 d’argento e 3 di bronzo)
Era la prima volta che la globalizzazione dello sport – invero ai suoi primi passi – obbligava gli appassionati svizzeri a levatacce in piena notte per assistere alle Olimpiadi invernali. Da allora è trascorso mezzo secolo, ma tutti coloro ai quali le giunture dolgono ormai da tempo, hanno stampato nella mente i Giochi del 1972 a Sapporo. Erano i primi, a livello invernale, a essere organizzati un una nazione asiatica (gli unici due precedenti fuori Europa erano quelli del 1932 a Lake Placid e del 1960 a Squaw Valley) e fu proprio nel Paese del Sol Levante che nacque l’idea della Svizzera come Paese dello sci. Sulle ali di Marie-Therese Nadig, Bernhard Russi e Rolando Collombin, la delegazione rossocrociata conquistò 10 medaglie (4 d’oro, 3 d’argento e 3 di bronzo). Certo, un bottino che se paragonato con gli standard ai quali lo sport elvetico è abituato da diversi anni a questa parte, potrebbe apparire poca cosa (a Pyeongchang, a titolo di paragone, nel 2018 la Svizzera aveva portato a casa ben 15 medaglie), ma mezzo secolo fa le discipline erano un terzo rispetto a quelle attuali (va per contro ricordato come l’implosione dell’Unione Sovietica e dei suoi satelliti abbia moltiplicato le nazioni in gara).
Il successo sportivo ottenuto sull’isola di Hokkaido permise allo sport elvetico di risollevare le sue quotazioni, dopo che nel 1964 a Innsbruck non era riuscito a vincere nemmeno una medaglia.
Quella di Sapporo fu un’edizione olimpica molto particolare. Proprio perché per la prima volta si svolgeva in un contesto completamente diverso rispetto alle abitudini. Anche solo il viaggio dalla Svizzera al Giappone fu tutt’altro che ordinario. Per l’occasione, ad esempio, gli inviati dei media elvetici erano stati direttamente aggregati alla delegazione rossocrociata, per cui indossavano lo stesso abito ufficiale degli atleti e dei loro allenatori. Il volo da Zurigo a Sapporo, con scalo a Mosca, operato in modalità charter dalla Swissair, rappresentò di per sé un’avventura. Infatti, era la prima volta che la compagnia di bandiera volava sopra la Siberia. Un evento storico del quale tutti i passeggeri possono serbare un ricordo grazie al diploma rilasciato per l’occasione dalla compagnia.
Una volta giunta a Sapporo, la delegazione fu presa alla sprovvista dal gigantesco festival di sculture di ghiaccio che ornava una città caratterizzata da zone pedonali sotterranee, lungo le quali negozi e ristoranti si susseguivano per chilometri e chilometri. Per la prima volta, gli atleti rossocrociati si trovavano confrontati con una realtà aliena alle loro consuetudini, nelle abitudini della gente, come nel cibo. Alla mensa del centro stampa, ad esempio, riscosse grande successo lo stufato d’orso.
Dal profilo sportivo, la delegazione svizzera approfittò al meglio dello slancio dato dalla creazione, nel 1966, del Comitato nazionale dello sport d’élite e, nel 1970, dell’Aiuto allo sport svizzero. Due organizzazioni messe in piedi dopo lo smacco di Innsbruck e che avevano iniziato a dare i loro frutti già nell’edizione di Grenoble 1968, quando la Svizzera aveva ottenuto sei medaglie (nessuna d’oro). Ma fu soltanto a Sapporo che l’inno elvetico tornò a risuonare, in un’edizione che permise alla Svizzera di issarsi al terzo posto del medagliere, alle spalle dell’inarrivabile Unione Sovietica e della Germania Est.
A fare da volano ai successi fu lo sci alpino, con il primo titolo conquistato da Marie-Therese Nadig. La sangallese, che in precedenza non aveva mai vinto una prova di Coppa del mondo, divenne a 18 anni la più giovane campionessa olimpica della storia. Sul monte Eniwa (“la Montagna felice”), nemmeno l’invincibile Annemarie Pröll era stata capace di resisterle. L’austriaca si era dovuta inchinare anche tre giorni più tardi, in occasione del gigante, battuta ancora dalla Nadig. Tra le due medaglie d’oro della sangallese, gli uomini avevano trovato il modo di piazzare una storica doppietta in libera, con Bernhard Russi e Roland Collombin, completata dal quarto posto di Andreas Sprecher e dal sesto di Walter Tersch. Russi, va detto, era diventato il grande favorito dopo l’esclusione da parte del Cio dell’austriaco Karl Schranz, reo di aver violato la carta degli atleti che all’epoca vietava la pubblicità. E nel gigante, la doppietta elvetica era stata vanificata soltanto dall’italiano Gustav Thoeni, l’unico capace di precedere Edi Bruggmann e Werner Mattle.
Il direttore tecnico dello sci svizzero, quell’Adolf Ogi anni dopo popolare consigliere federale, aveva adottato un approccio scientifico alla trasferta in Giappone. Ad esempio, la federazione svizzera aveva proceduto ad analisi chimiche dei campioni di neve nipponica e aveva installato umidificatori in tutte le camere della delegazione.
L’Olimpiade 1972 viene ricordata per gli exploit di Nadig e Russi, ma anche per quello della staffetta 4x10 km che nello sci di fondo conquistò un incredibile bronzo, grazie a un finale al cardiopalma di Edi Hauser, capace di precedere di pochi metri lo svedese Sven-Ake Lundbäck. Alfred Kälin, Albert Giger, Alois Kälin ed Edi Hauser, il quartetto svizzero, per ogni appassionato di fondo rappresentano ancora oggi una sorta di filastrocca da sciorinare come una mantra.
Lo sci nordico aveva regalato pure l’argento di Walter Steiner dal trampolino, mentre nel bob Jean Wicki aveva conquistato il bronzo nel bob a due, prima di ripetersi anche nel bob a quattro.
A mezzo secolo di distanza, a Pechino la Svizzera ha la possibilità di fare altrettanto bene e centrare l’obiettivo che Swiss Olympic ha fissato a quota 15 medaglie, proprio come quattro anni fa in Corea del Sud.