Le infinite e variegate emozioni regalate dal poter vivere in loco le competizioni a cinque cerchi
Ma che cosa vuole tutta questa gente sugli spalti dello Stade de France, del Centre Aquatique, del Grand Palais? Decine di migliaia di persone che hanno preso aerei, autobus, metropolitane, che vengono da tutti i continenti, che stamattina hanno messo la sveglia all’alba e ora sono qui, a scandire cori, a sventolare bandiere, a ribadire appartenenze in tutte le lingue del mondo. Vogliono partecipare? Vogliono divertirsi? Vogliono emozionarsi? No, vogliono solo una cosa, vogliono poter dire: Io c’ero. Io c’ero, quando ripenseranno a questa estate del 2024.
Io c’ero, quando racconteranno con febbrile eccitazione aneddoti a qualcuno che peraltro nemmeno li ascolterà. Io c’ero quando Léon Marchand vinse due medaglie d’oro nell’arco di due ore. Io c’ero quando la judoka giapponese Uta Abe venne eliminata e il suo urlo di disperazione continuò per giorni a risuonarmi nella testa.
Io c’ero, mentre mi facevo i selfie controluce perché non capivo le regole del tiro con l’arco e qualcosa dovevo pur fare. Io c’ero, mentre da spettatore contribuivo a scrivere un pezzettino di storia, anche se, a dirla tutta, quel giorno avevo preso un biglietto a visibilità ridotta, categoria D, accanto al telecronista montenegrino che mi urlava nelle orecchie e io pensavo solo a cosa mangiare dopo la partita.
Il mio primo ricordo delle Olimpiadi è Ben Johnson che vince la medaglia d’oro sui 100 metri a Seul nel 1988. Il mio secondo ricordo delle Olimpiadi è Ben Johnson che tre giorni dopo viene squalificato per doping. Sono un bambino, e sono molto triste. Ho appena intuito come funziona: la vita è uno schifo, meglio non avere idoli, tanto prima o poi ti tradiscono tutti. Seguiranno altri ricordi, Steffi Graf che vince il Golden Slam quello stesso anno, la Nazionale di pallanuoto italiana del 1992, Michael Johnson che fa la doppietta 200-400 ad Atlanta, correndo in quel modo tutto suo.
Ricordi privati e collettivi, mediati dalla tv e consolidati da una devozione che puoi spiegare solo con l’aiuto di metafore e altre figure retoriche. Lo sport è un generatore automatico di storie, di sensazioni che rimangono a fluttuare per decenni nei retropensieri, finché con un amico non ti siedi a chiacchierare fuori dallo stadio, alla fine di un’afosa giornata volata via mentre gli atleti sudavano veramente: ti ricordi la faccia di Ivan Lendl quando Michael Chang servì la palla da sotto? Certo, io c’ero.
Ma i ricordi si costruiscono anche con ostinazione, pazienza e metodo. Vedrai, è impossibile trovare i biglietti delle Olimpiadi. Vedrai, costeranno tantissimo. Vedrai, sarà un delirio con i trasporti pubblici. Vedrai, vedrai, dicevano. Il punto è sempre lo stesso, la motivazione. Cosa sei disposto a fare pur di dire Io c’ero? Rimanere seduto per ore sotto il sole a 35 gradi fino a perdere la memoria a breve termine.
Fare una fila di venti minuti per riempire la borraccia di acqua dalle fontane gratuite, mentre nello stadio la partita è già ricominciata e di sicuro ti stai perdendo il punto decisivo. Mettere in piedi una pantomima degna dei migliori stereotipi sul tuo Paese, supplicare lo steward per farti imbucare al Suzanne Lenglen e poter vedere la vittoria delle tue doppiste preferite.
Comprare biglietti a caso, venderne altri, non capirci più niente. Salire sulle montagne russe, esaltarti per la vittoria del tuo piccolo Paese che nessuno sa collocare sul mappamondo, rimanere malissimo per non aver trovato niente da mangiare al chiosco che in teoria esiste solo per venderti qualcosa da mangiare. Tornare a casa a notte fonda, dormire qualche ora, ricominciare daccapo, ancora, e ancora. Ho trovato due biglietti per il beachvolley a 420 euro l’uno, andiamo?
Esserci, fisicamente, portare il proprio corpo dentro il corpo stesso delle Olimpiadi, non è come in un qualsiasi altro evento sportivo. Significa accedere a una specie di portale magico. Una volta varcato, niente sarà più lo stesso.
È come indossare un casco della realtà virtuale, non hai i soliti punti di riferimento ma ne hai altri, nuovi, più potenti. Tutto è diverso: l’adrenalina, i colori, l’aria che si respira. Gli stessi sport sono differenti. L’unica cosa che conta è coprire ogni istante di silenzio, di potenziale noia. Battere l’horror vacui grande come uno stadio, due stadi, mille stadi.
Sul Centrale del Roland Garros di solito regna una calma olimpica durante i match, qui ai Giochi invece c’è una banda musicale che intrattiene il pubblico tra un game e l’altro, con pezzi della variété française e ritornelli rivisitati per l’occasione. Durante le partite di rugby a 7 un dj carica lo stadio sparando a caso e a tutto volume One more time dei Daft Punk, I follow rivers di Lykke Li e altre canzoni di un passato che è sempre felice visto da qui. Lo sport ai Giochi non è solo sport, è spettacolo, passatempo, svago.
È il bisogno insaziabile di non perdersi le altre gare, quello che sta succedendo fuori da qui, errando tra la realtà della presenza e il virtuale degli schermi. Spendi centinaia di euro per i 400 misti di atletica e intanto sullo smartphone guardi la finale di judo perché c’è il francese più forte di tutti i tempi e tu non puoi perdertelo per niente al mondo, e poi alzi gli occhi verso il karaoke appena partito sul maxischermo e che fai, non ti metti a cantare anche tu?
Io c’ero significa perdersi nell’amalgama di colori e appartenenze, seguire i cori di una ragazza cinese apparentemente tranquilla che si trasforma in capo-ultras della propria squadra di ping-pong, e urlare anche tu, anche se non sai minimamente il significato di quelle parole, perché è giusto così, perché è bello così. Significa mettersi a tifare per atleti che non hai mai sentito nominare solo perché indossano un completo che ti piace, o esultare come i pazzi per una vittoria che non è tua ma è tua. Abbiamo vinto, sì ma noi chi?
Significa fare amicizia sugli spalti di un campetto del Roland-Garros con un ragazzone con la parrucca tricolore e suo padre settantenne, scambiare viveri e creme solari, tifare come compagni di mille battaglie sportive, darsi appuntamento per il match serale ma non rivedersi mai più, chissà cos’è successo, forse il padre non si è sentito bene, ma no, dai, si sono stufati del tennis e sono andati a vedere il basket a 3 a Place de la Concorde, magari li rivediamo alle prossime Olimpiadi, o magari in questo momento loro stanno raccontando la stessa storia, a parti invertite.
Io c’ero significa intercettare sguardi di intesa con gente sconosciuta due file più in alto, intere storie d’amore che durano lo spazio e il tempo di un secondo, scusa ora devo lasciarti che c’è il match-point. Significa accorgersi di dettagli che normalmente sfuggono all’occhio, guardare dove nessuno sta guardando, nelle pieghe del momento.
Anche fuori dall’inquadratura succede qualcosa di irripetibile, qualcosa che magari esiste a prescindere dalle Olimpiadi e che tu scopri grazie alle Olimpiadi. Storie e curiosità che aggiungerai alle diapositive da far vedere al ritorno delle vacanze. Per esempio, ecco la mia preferita, senti qua.
In acqua i pallanotisti di Australia e Ungheria se le danno di santa ragione, l’arbitro continua a interrompere il gioco per fischiare falli, rigori ed espulsioni, e intanto, in un angolo a bordo piscina, c’è una figura appartata di cui non importa a nessuno, perché nessuno sembra vederla. È una ragazza, indossa un costume intero scuro e un accappatoio di spugna grigio. È seduta su una sedia di plastica con le gambe incrociate, ha i capelli umidi e lo sguardo perso nel vuoto.
È solo un puntino in mezzo a migliaia di persone che fanno il tifo sfrenato. All’improvviso un pallone finisce nei corridoi laterali fuori dal rettangolo di gioco. Lei si alza, con calma si toglie l’accappatoio e si tuffa in acqua. Senza dare nell’occhio, si mimetizza con l’acqua, raggiunge il pallone e lo riporta indietro, piano piano. Esce dalla piscina, ripone il pallone in una cesta, torna verso la sedia, prende una spugna, si asciuga gambe e braccia e indossa nuovamente l’accappatoio. Si siede. Aspetta. Il suo compito è questo, recuperare i palloni, e lo farà ancora diverse volte, seguendo sempre l’identica sequenza di gesti millimetrati. Non solo. Alla fine di ogni tempo, quando i giocatori si riuniscono con gli allenatori, la ragazza si rituffa in acqua, va a cercare l’unico pallone vagante rimasto e lo posiziona al centro della vasca.
Quando il gioco ricomincia, gli atleti si lanciano alla conquista di quel pallone per garantirsi la prima azione di attacco. La ragazza rimane nel suo angolo fino al fischio finale. È andata bene, nessuno si è accorto di lei. Perché lo sport, come il mondo, va così. C’è chi sta in scena a prendere ori e allori, e c’è chi sta dietro le quinte, a raccattare i palloni e correggere le sbavature. Senza questa ragazza, e senza le altre figure laterali e a piè di pagina, senza i volontari seduti sui trespoli rosa a dare indicazioni, senza i personaggi non protagonisti e invisibili, ci sarebbe meno da raccontare. Le partite, le competizioni e le Olimpiadi non sarebbero le stesse. Non potremmo dire, come invece possiamo dire a gran voce: io c’ero, è stato bellissimo.