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Un salto a Parigi, istantanee da una festa riuscita

Lo spirito olimpico ha pervaso la capitale francese, piena di volontari sorridenti e accoglienti. Un diario di piccole storie felici dai Giochi

L’abbraccio liberatorio dopo il bronzo ex aequo nel K2 500
(Keystone)
14 agosto 2024
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Per illuderci di aggrapparci a un passato ormai alle spalle abbiamo molti modi: la musica, le fotografie, i luoghi, gli odori. Per i malati di sport ci sono le Olimpiadi. La sera del 6 luglio, mentre osservo, esattamente sotto di me, la finale olimpica di salto in lungo maschile dagli spalti dello Stade de France, ho tra le mani – come quasi tutti – uno smartphone. Sto facendo foto e video sgranati, mossi e dimenticabili di salti perlopiù non indimenticabili. Ma non importa. Perché sono lì e non sono lì; perché sono a Parigi e contemporaneamente nella mia cameretta di bambino; perché tra le mani mi pare di sentire – dopo decenni – non uno smartphone, ma un altro oggetto a cui abbiamo appiccicato un nome in inglese senza più toglierlo: il joystick. Con quello, da bambino, giocavo partite interminabili a Track&Field insieme a mio fratello, di cinque anni più grande.


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Il salto in lungo nel gioco Track&Field

I figli del Vento e di Track&Field

Track&Field arrivò nelle sale giochi e poi sui nostri Commodore64 poco prima delle Olimpiadi di Los Angeles: fu un successo enorme. E mentre in sala giochi dovevi schiacciare ripetutamente due pulsanti per correre, saltare e lanciare, a casa dovevi praticamente distruggere ogni volta un joystick andando a destra e sinistra più velocemente possibile. Tra le varie discipline del gioco (che includevano i 100 metri, i 110 ostacoli, il salto in alto, il lancio del giavellotto…) c’era il salto in lungo, dove eccellevo nonostante avessi appena sei anni. A quell’età avevo due desideri per la mia vita adulta, diventare benzinaio, vai a sapere perché (a parte quel misto di attrazione e repulsione per l’odore della benzina) e vincere la medaglia d’oro di salto in lungo. Ma lì il perché lo sapevo benissimo. Avevo visto, ammirato, Carl Lewis vincere a Los Angeles quattro medaglie d’oro in quella strana Olimpiade dove mancava un pezzo di mondo, e cioè i sovietici e alcuni Paesi della loro sfera d’influenza (come Germania Est e Cecoslovacchia). Tra le vittorie di quello che allora veniva chiamato il Figlio del Vento ero rimasto affascinato dal salto in lungo, che – grazie a un joystick e un computer – potevo replicare all’infinito davanti a un piccolo schermo in bianco e nero.

Non ci provai mai poi a fare il saltatore in lungo e tantomeno il benzinaio. Ma le Olimpiadi man mano che crescevo divennero l’appuntamento quadriennale con la meraviglia, prima Seul ’88 con quegli orari strani, poi Barcellona ’92, ormai ragazzo con gli ormoni in subbuglio e una passione per Diana Bianchedi, italiana oro a squadre del fioretto. Arriverà poi Atlanta, con Mohammed Ali, malato e tremolante per via del Parkinson che accende la fiamma olimpica: un’immagine di una potenza commovente anche a distanza di tempo. Era il 1996 e prima di decidermi a finire dentro al mio sogno di bambino ho aspettato – chissà perché – altre sei Olimpiadi.


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La finale di salto in lungo maschile

Il salto in lungo è stato il primo evento di cui mi sono procurato un biglietto d’ingresso, come se dovessi innanzitutto saldare un debito con chi mi aveva fatto innamorare delle Olimpiadi per poi occuparmi di tutto il resto. Certo, la gara non è stata epica e in pedana non c’era un Carl Lewis. Ma la bellezza ripetuta di quel gesto, di quei balzi che sembrano voli e l’attesa della misurazione del salto – all’epoca manuale e oggi computerizzata – hanno ripagato ogni aspettativa del bambino e dell’adulto.

La maratona dello spettatore

Prima e dopo quella sera del 6 agosto ho assistito in tutto a 27 eventi di 17 diversi sport olimpici in 12 giorni dentro 11 impianti diversi, provando il più possibile a differenziare, passando dal calcio femminile alla lotta greco-romana, dal tiro con l’arco alla canoa, dalla boxe ai tuffi. Non c’è modo migliore di attraversare un’Olimpiade che facendosi sballottare qua e là, seguire il flusso di quel che il calendario degli eventi e le distanze permettono di incastrarci dentro, senza pregiudizi, facendoti sorprendere da quel che non conosci, guardando sport di cui nemmeno sai le regole o capisci i punteggi.


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Lotta libera

Mi perdoneranno gli esperti di lotta, ma parte del fascino nell’andarla a vedere è stata proprio nel potermi concentrare in qualcosa di diverso dal risultato. E certo mi sarò senz’altro perso qualcosa di tecnicamente rilevante, ma ho avuto in cambio molto altro. Vedere la lotta da vicino mi ha permesso di indagare la bellezza dei corpi in movimento: parliamo di uno sport in cui il contatto è tutto, dove si sfiora la compenetrazione dei corpi, con teste che svaniscono nei petti altrui per poi ricomparire, dove un momento sei sopra a dominare l’avversario e quello dopo sotto ad annaspare, è una lezione di anatomia e insieme di storia dell’arte, perché i lottatori non sono altro che statue che riprendono vita.

Andare due ore dopo a vedere il tennistavolo, uno degli sport olimpici in cui il fisico conta meno, è stata una sorta di rivelazione, di incontro con lo Yin e Yang dell’Olimpiade. A Parigi, a competere nel ping pong, c’era Ni Xia Lian, 61 anni, cinese di nascita e lussemburghese d’adozione. Ma anche Félix Lebrun, nemmeno maggiorenne, mingherlino, capelli rasati corti con la macchinetta, occhialetti vagamente fantozziani e un’aria da nerd alla riscossa che ha trascinato con sé tutta la Francia, impazzita per lui fino a riempire un palazzetto di cori e bandiere. Conquisterà alla fine un bronzo festeggiato come un oro, perché le vittorie non sono tutte uguali e non è il peso della medaglia a decretarne il valore.


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Félix Lebrun durante la semifinale persa

L’altro grande eroe dei padroni di casa è stato Léon Marchand, quattro ori nel nuoto, due a distanza di nemmeno un’ora, nell’unica sera in cui il caso ha voluto che mi trovassi lì (perché almeno una serata di nuoto volevo vederla), con una doppia Marsigliese in suo onore carica di una solennità mai più sentita altrove. E la gente che storpiava l’inno da “Marchons, marchons…” in “Marchand, Marchand”.

Più momenti che nomi

Inutile fare un resoconto dettagliato di nomi e medaglie viste o applaudite. L’Olimpiade è fatta di tanti attimi fuggenti, in cui tu – senza nemmeno sapere perché – ti ritrovi all’improvviso a tifare per un pugile usbeco di cui non riesci nemmeno a pronunciare il nome, per una lottatrice ecuadoriana soprannominata ‘La Tigra’ o un arciere americano che perde l’oro all’ultima freccia con un sudcoreano che speri che perda anche se non ti ha mai fatto niente.

Quel che resta sono sempre momenti o poco più, come quando con un amico sgattaioliamo sugli spalti del Suzanne Lenglen per l’ultimo game della semifinale di Errani-Paolini con la complicità di un volontario messo lì apposta per non farci entrare, sedendoci giusto in tempo per vederle vincere. O la gioia di vedere spuntare sul sito ufficiale un biglietto per la finale di pallavolo femminile dopo che per giorni c’era stato scritto “non più disponibile”.


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Léon Marchand, quattro ori

Già, perché anche il grande mito per cui i biglietti dei Giochi vengono esauriti mesi prima non è vero, non qui almeno: a parte per gli Usa di basket e poche altre gare si poteva trovare un biglietto, a volte anche molto economico, per qualsiasi cosa, 100 metri compresi, perfino il giorno stesso. Certo, bisognava avere costanza, controllare spesso il sito, cliccare e ricliccare con pazienza.

Non era raro vedere spettatori di un evento perdersene un pezzo perché erano con gli occhi sul cellulare a cercarne già un altro o a guardare direttamente un’altra gara. Quando Marchand ha vinto l’ennesimo oro, dentro la piscina di La Défense, l’entusiasmo al Roland-Garros era tale che l’arbitro ha dovuto interrompere la partita tra Djokovic e Musetti per ristabilire la calma, mentre i francesi, fregandosene del fatto di essere in uno dei tempi dello sport dei gesti bianchi, cantavano l’inno nazionale e urlavano “Léon, Léon” senza sosta. Due ore più tardi, durante la premiazione del doppio misto, lo speaker sbaglierà il nome del ceco Tomas Machac, chiamandolo Malach. A lui, con l’oro negli occhi e sul collo, comunque pareva interessare poco. Ha baciato in bocca la compagna di doppio, Katerina Siniakova, che era stata anche compagna di vita, ma ora no. Ma poi chissà.

Questo eccesso di entusiasmo dei parigini va tuttavia perdonato: mai visti in vita mia così raggianti, gentili e sorridenti. L’Olimpiade ha davvero fatto il miracolo di rendere una delle grandi città più diffidenti del pianeta un luogo dove sentirsi accolti e coccolati. Certo, la metà dei parigini che i Giochi non li voleva se n’era andata per tempo, prima della temuta cerimonia d’inaugurazione, ma molti – ti dice la gente del posto – si sono pentiti sentendo i resoconti degli amici e sarebbero volentieri tornati per partecipare alla festa, che era ovunque, nei luoghi degli eventi, ma non solo, come se ogni pezzo di città avesse preso la scossa e non potesse più stare ferma.

Abbracciate

A Vaires-sur-Marne, dove si tenevano le gare di canottaggio e canoa sprint sembrava di essere a una festa campestre, con la gente adagiata sul prato, accanto all’acqua, a mangiare i panini fatti in casa. Lì ho assistito a una delle scene più belle, il finale del kayak doppio donne 500 metri, con le ungheresi Pupp e Fojt che arrivano a giocarsi il bronzo al fotofinish con le tedesche Paszek e Hake. Mentre le prime, convinte di essere arrivate dietro, girano per il piccolo molo d’arrivo sconsolate, le altre due – non certe della medaglia – si buttano a terra, piangono e pregano. L’esito è così incerto che nemmeno dopo dieci minuti si sa chi sono le terze e così si decide – eccezionalmente – di far partire la gara successiva.


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La felicità delle terze ex aequo del K2 500 sul podio

Quando finalmente arriva il risultato, si scopre che è stato assegnato il bronzo a entrambe le coppie, che da quel momento si sciolgono, sorridono, si abbracciano tra loro quattro e non si staccano più: abbracciate mentre salgono sul podio, durante la premiazione e anche dopo. Per quanto ne so potrebbero ancora essere abbracciate ora che è passata quasi una settimana. E vederle non era solo bello, era la porta socchiusa verso una possibilità che andava oltre la gara. L’ho rivista nelle maratonete arrivate nei primi posti che andavano incontro alle ultime al traguardo come fossero sorelline che si erano perse per strada, nei dialoghi in inglese tra un tifoso coreano e uno turco del tiro con l’arco, che hanno iniziato la gara da sconosciuti (e tifosi rivali in una sfida dei quarti di finale) e l’hanno finita abbracciandosi e promettendosi una birra, e sugli spalti della lotta mentre una fisioterapista della squadra ecuadoriana faceva amicizia con una velista polacca, arrivata ottava in finale, entusiasmandosi sinceramente per lei per il fatto che avesse ricevuto il diploma olimpico (consegnato, appunto, fino all’ottavo posto).

Quando ho deciso di andare alle Olimpiadi di Parigi volevo solo portare quel bambino che con un joystick in mano imitava Carl Lewis là dove nel 1984 non poteva nemmeno immaginare di andare. Ho trovato invece molto di più, ovvero una comunità – quella olimpica – che trascinata dai parigini ha saputo davvero incarnare il meglio di quel che noi umani potremmo essere e quasi mai siamo. Perché, come ha detto bene – con realismo – il presidente del Cio, Thomas Bach, durante la cerimonia di chiusura, “le Olimpiadi non possono certo creare la pace, ma possono creare una cultura della pace in grado di ispirare il mondo”. L’abbiamo vista, l’abbiamo toccata, eravamo noi. È stato bellissimo.