Un po’ Woodstock, un po’ Capodanno extralarge, la cerimonia d’apertura è stata un mix di acqua (tantissima), grandeur, simboli e gioia di vivere
Uscire di casa, camminare un paio di chilometri nella città deserta, impaurita o forse solo menefreghista, arrivare a uno dei varchi nei pressi di Invalides. Aspettare due ore in piedi sotto un cielo grigio, appiccicati alle schiene sudate di un gruppo di americani, mentre l’impazienza si fa smania e la smania si fa sfinimento. Farsi perquisire dai poliziotti dimostrando di non avere intenzioni malevole (“Beva un sorso dalla sua borraccia, subito”), finalmente passare i cancelli, farsi invadere da una specie di felicità infantile.
Ecco, andare alla prima cerimonia olimpica della nostra vita assomiglia molto all’esperienza di un concerto in grande stile. La differenza è che il palco normalmente sta in alto, mentre qui lo spettacolo scorre in basso, sulla Senna.
Entriamo nella zona indicata sul biglietto e ci troviamo ad altezza strada, davanti al Ministero degli Esteri, in corrispondenza della parte finale della parata. Capiamo subito la situazione, forse perché siamo italiani e siamo abituati alle fregature. Siamo parte di quei 200mila che hanno avuto il biglietto gratis, grazie a una riffa olimpica. Siamo quelli che per settimane hanno ingenuamente immaginato di trovare degli spalti, dei gradoni, delle strutture rialzate. E invece niente, solo il manto orizzontale circondato da transenne e il muro che si affaccia sul fiume e sui 100mila spettatori che hanno pagato cifre esorbitanti per assistere alla cerimonia. Attorno a noi ci sono quattro maxischermi che trasmettono la diretta su France 2, ci sono i chioschi con le birre a chissà quanti euro, ci sono i militari con i fucili spianati che proteggono il ministero. La riffa era truccata: siamo finiti a vedere la tv a cielo aperto e non c’è nemmeno un posto dove sedersi.
Keystone
Bandiere sulle case del Lungosenna
Ma la delusione si trasforma subito in qualcosa di indefinito tra la curiosità e il cupio dissolvi. Mentre molti, indignati, decidono di andarsene, la stragrande maggioranza si impunta: siamo a Parigi, e a Parigi, lo sappiamo, succede sempre qualcosa. E poi, diciamoci la verità, quanto è triste bersi la birra del discount da soli sul divano davanti allo schermo del computer? Tanto vale farlo assieme a decine di migliaia di persone sconosciute e farsi contagiare da un entusiasmo peraltro immotivato, visto il cielo che diventa sempre più scuro. A colpi di gomito mi avvicino al muro che separa il popolo in alto dall’aristocrazia in basso, guardo verso il pont de la Concorde e fin dove l’occhio e le barriere me lo permettono, e improvvisamente mi arriva l’epifania.
Non siamo in uno stadio, ma siamo sul fiume. In uno stadio c’è il palco centrale, statico, che assorbe i punti di vista, e permette dunque di abbracciare l’esperienza nel suo insieme. Portare la Cerimonia su un fiume significa invece farla esondare, lasciarla scorrere, liquidamente, farle prendere la forma del contenitore, in questo caso Parigi e i suoi luoghi iconici.
Il punto di vista non è unico ma molteplice. Tutto è sparpagliato, orizzontale, mobile. Tutto si muove, tutto è ovunque. Le autorità, i presidenti, i ministri ma anche le persone comuni e chi ha vinto la riffa truccata: nessuno, proprio nessuno, riuscirà a vedere la Cerimonia nella sua totalità. Dovremo tutti ricorrere ai maxischermi. Siamo tutti sulla stessa barca. Liberté, Fraternité, ma soprattutto Égalité. Forse c’erano modi meno contorti di ribadire il concetto, ma si sa, i francesi devono farsi sempre notare.
Keystone
I danesi sotto la pioggia
Non rimane dunque che sedersi per terra, sull’asfalto e sulle aiuole, incrociare le gambe e le dita. Siamo tanti, di tante nazionalità, vogliamo qualcosa di epico. Nessuno sa cosa aspettarsi, non ci sono precedenti. “Impossible n’est pas français”, disse una volta un certo Napoleone, ed è proprio ciò che i francesi hanno cercato di dimostrare con questa cerimonia. Si parte con la frase “Ça ira”, tratta da una canzone rivoluzionaria, cantata da Édith Piaf e da mille altri, scritta da chissà quante mani, con aggiunte progressive nel corso degli anni (“L’égalité partout régnera”).
Il primo boato è per l’inizio della sfilata vera e propria. Le delegazioni della Grecia, dei Rifugiati e del Brasile sono quelle che ottengono più successo all’applausometro, l’Argentina quella che prende più fischi, ma è lo spettacolo, lo show, la meraviglia che tutti noi, popolo ed élite, aspettiamo con ansia. Siamo francesi, siete francesi, dimostratelo.
Si parte con la sorpresa-non sorpresa di Lady Gaga che interpreta un pezzo del repertorio di Zizi Jeanmaire (“Mon truc en plume”) e si continua con i primi intermezzi registrati sui tetti di Parigi. Con l’esibizione di Aya Nakamura davanti all’Académie Française, accompagnata dalla Garde Républicaine, la folla esplode all’unisono. Ecco quello che ci meritiamo: la cantante simbolo della Francia multiculturale, che riesce a prendersi lo scettro della pop star francofona più influente nel mondo, partendo dal Mali e da Aulnay-sous-Bois e arrivando fin qui, a difendere la libertà di innovare la nostra lingua. Aya Nakamura prende con ironia il testimone da Charles Aznavour, francese di origini armene, e un giorno lo passerà ad altri francesi, di altre origini, di altre provenienze.
Keystone
La festa degli atleti svizzeri
Quanto è bella e fiera questa Francia che si specchia nelle acque della Senna, che alza lo sguardo dal proprio ombelico e porge con munificenza all’intero pianeta tesori, ricchezze e saperi. Ma si sa, la hybris a un certo punto si paga, e gli dèi dispettosi hanno la vendetta facile: una goccia dal cielo, poi un’altra, e il peggior scenario possibile diventa realtà. Inizia a piovere e non la smetterà più.
Il diluvio prende la rincorsa e come un flagello si abbatte su di noi, seduti per terra, e anche sugli atleti, sulle delegazioni, sugli artisti, sui ballerini, sul presidente italiano Mattarella e su altri capi di Stato. Come la livella di Totò, la pioggia pareggia i conti e ci rimette ancora una volta tutti sullo stesso piano. Di fronte alla natura siamo uguali, c’è poco da fare. “Plus de riches/ Plus de pauvres / Quand on redevient tout nu”, canterà più tardi Philippe Katerine, ma intanto la pioggia non smette, aumenta d’intensità, continua a lavare tutto.
Keystone
La barca sulla Senna con Serena Williams, Carl Lewis, Nadia Comaneci e Rafa Nadal
Gli ombrelli e gli impermeabili non servono più a niente, e nemmeno i lamenti e le geremiadi. Bisogna solo lâcher prise, lasciarsi andare. L’acqua viene dal cielo e scorre nel fiume. L’acqua è ovunque, in orizzontale e in verticale. È nelle lacrime di rabbia degli ultrareazionari che ululano per una cerimonia troppo queer, ma anche nelle lacrime di gioia dei progressisti che si trovano davanti a una rappresentazione della Francia finalmente moderna.
Saltano gli schemi, il manto stradale è un lago di pioggia e fango, i detriti scorrono sui canali di scolo, c’è chi balla come in un baccanale da fine del mondo, chi fuma erba senza freni, tanto i militari hanno ormai altro a cui pensare. Chi prova inutilmente a difendersi dall’acqua indossando sacchi dell’immondizia da cinquanta litri, chi guarda nel cielo gli elicotteri che continuano a volteggiare imperterriti.
Keystone
Un bimbo sotto l’acqua di Parigi
L’atmosfera è a metà tra una Woodstock fuori tempo massimo e un Capodanno esausto con la gente che fa i trenini su David Guetta, Claude François o Gala. In un punto lontano, in mezzo al grigio e alla foschia, intravediamo Axelle Saint-Cirel, la mezzo soprano che canta la Marsigliese, e noi appresso a lei, alcuni con la mano sul cuore, è una sorta di preghiera laica ma gli dèi non ascoltano.
Le barche continuano a sfilare e l’acqua della Senna continua a salire, gli atleti sono fradici dalla testa ai piedi ma non temono raffreddori e tonsilliti, così come non le temiamo noi comuni mortali. Non succederà niente di male a nessuno, stasera, perché siamo in una bolla, la livella ci protegge, siamo qui a guardare i maxischermi come oracoli che spargono momenti irripetibili di camp e pop nel senso di popolare. Siamo qui a seguire trepidanti Zidane che passa la fiamma all’eroico Nadal, che poi sale sulla barca con Carl Lewis, Serena Williams e Nadia Comaneci, e tutti si prendono secchiate d’acqua in faccia, come noi, e poi ancora Amélie Mauresmo e Tony Parker, che ci conducono per mano fino al climax: Teddy Riner e Marie-José Pérec accendono il braciere olimpico, e la folla può esplodere in un boato definitivo.
Zidane riceve la torcia olimpica
E dunque torniamo indietro, con ancora negli occhi la potenza di una cerimonia fluviale e imperfetta, che ha polverizzato molti record e che ha demolito vecchi stereotipi e cliché. Tra le tante possibili versioni di sé, la Francia ha mostrato quella più inclusiva, capace di accogliere a braccia aperte la natura, le variazioni, le fughe in avanti. La Francia che viviamo ogni giorno nei luoghi e nelle strade, in mezzo alla gente vera. La Francia dell’eterno paradosso in cui convivono rivoluzione e restaurazione, Monarchia e Repubblica. La Francia arrogante che sfida l’impossibile e il jamais vu, e la Francia fragile, umana, che non teme di mostrarsi per quella che è.
Torniamo indietro, a piedi, in giro non ci sono poliziotti, non ci sono macchine, non ci sono biciclette. Solo gente sfinita, fradicia nelle ossa e nell’anima, le scarpe sporche di terra e fango. Continua a piovere, forse continuerà a piovere per sempre, ma non importa. Volevamo qualcosa di indimenticabile, lo abbiamo avuto.
Keystone
Lo spettacolo sotto la Torre Eiffel