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Fischer, la Svizzera e il mal di testa da quarto

La brutta fine d'un bellissimo sogno svanito d'incanto sull'uscio della semifinale in Lettonia. Con un nuovo spettro all'orizzonte, quello della Germania

Fa male, certo. Ma anche russi e cechi possono dire lo stesso (Keystone)
4 giugno 2021
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Non abbiamo perso solo una partita, l’altroieri. Uscendo dallo stadio, in quel giovedì nero sul ghiaccio di Riga ci siamo pure resi conto di avere un’ossessione in più. Non bastava l’angosciante Svezia a non farci dormire la notte: adesso a tormentarci il sonno (soprattutto quello di Patrick Fischer, v’è da credere) ci si mette anche il fantasma della Germania. Nazione che non battiamo più da una vita, se non in qualche amichevole tra novembre e marzo. Al contrario, quando in palio c’è qualcosa di concreto, di tangibile, d' irrinunciabile, indipendentemente da chi sia l'allenatore sulla panchina dei tedeschi, oppure da quante stelle della National Hockey League ci siano in pista, da più di dieci anni a questa parte sono sempre quelli vestiti di giallo e nero a spuntarla. Alle Olimpiadi o ai Mondiali che siano.

Di curioso, però, c’è soprattutto che non ci siamo riusciti neppure stavolta, nonostante al torneo in Lettonia la Nazionale di Fischer abbia avuto un’efficacia al tiro che sfiorava il dodici per cento, appena dietro ai russi e davanti agli statunitensi, tanto per rendere l’idea. Per non parlare, poi, di un powerplay con un tasso di riuscita pari al trentacinque per cento, neanche stessimo parlando dell’Unione sovietica nell'era del suo massimo splendore. Poi, è vero, qualcuno obietterà che se Nico Hischier e compagni fossero davvero riusciti a sfruttare degnamente quel minuto e 39 secondi a 5 contro 3 l'altroieri, sull’1-0, poco prima di metà partita, magari adesso saremmo qui a lodare gli elvetici per il loro sesto successo in otto partite, sbandierando ambizioni di medaglia e persino di titolo, siccome per una volta gli Dei dell’hockey avevano deciso (ironicamente detto, beninteso) di levarci di torno gli indigeribili svedesi.

Invece no. Per la seconda volta di fila, dopo la bruciante e crudelmente ingiusta – quella sì – eliminazione ai quarti in Slovacchia contro il Canada in quel giovedì di fine maggio del 2019, i ragazzi di Patrick Fischer si ritrovano nuovamente col capo chino, intenti a leccarsi ferite profonde. Quella sera a Kosice di due anni prima, immediatamente dopo la beffa a quattro decimi dal sessantesimo ad opera di un gruppo di canadese a dir poco miracolato, il coach rossocrociato parlò così: «Non so nemmeno cosa dire, se non che a volte la vita è ingiusta».  Ugualmente mortificante, perché pure stavolta il pareggio tedesco è arrivato all'ultimissimo, a 44 secondi dalla fine, il quarto di finale perso in Lettonia ha però una genesi ben diversa. Infatti, e non se ne saprà mai il perché, stavolta negli ultimi dieci minuti abbondanti i rossocrociati hanno sgomberato il campo base, pregando ai tedeschi di accomodarsi. Incomprensibile al punto che lo stesso ‘Fischi’, giovedì, in conferenza stampa non riusciva a capacitarsene. «Abbiamo consegnato con troppa facilità alla Germania la linea rossa e dire pure la linea blu… Ho cercato di spingere i giocatori, dicendo loro di andare in avanti. Non so, è come se fosse una specie di blocco». Un blocco, appunto. Che, invece, i tedeschi non hanno avuto. Difatti hanno continuato a lavorare, oltretutto cambiando in corsa modalità, visto che hanno dovuto improvvisamente mettersi a spingere dopo aver tappato buchi per un tempo e mezzo. E l'hanno fatto senza pensarci su troppo. A immagine di tale Marcel Noebels, quinto rigorista germanico, ma soprattutto il primo ad avere sulla paletta del bastone il puck del successo, poco dopo che Niederberger in qualche modo avesse trovato il modo di chiudere la porta in faccia a un encomiabile Grégory Hofmann. In altre parole: a quel punto, se Noebels segna la Germania è in semifinale. E lui cosa fa? Senza pensarci su, prova a imitare l’indimenticato Peter Forsberg buttandosi in una di quelle finte in cui basta davvero un niente per mandare tutto all’aria. Invece Noebels ci riesce: altro che braccino. Pur se a fine partita, di fronte ai giornalisti tedeschi ammetterà: ‘Ho avuto un tuffo al cuore, e sono contento di non aver saputo prima che avrei dovuto tirare quel rigore’.

Poi si può discutere di tutto e disquisire su tutto. Come del fatto che dei quattro rinforzi Nhl, l’unico pienamente all’altezza della sua fama in casa Svizzera è stato Timo Meier. Oppure che di Roman Josi ce n’è uno solo (quindi andrebbe clonato), che Andrighetto è una cosa e Malgin un’altra, e persino che il Genoni di Riga non era il Gerber di Stoccolma, che nel 2013 riuscì a parare anche le mosche. Tutto lecito, tutto accettabile anche solo in parte. Resta il fatto che al tirar delle somme, se si guarda agli accoppiamenti delle semifinali, domani, ci si accorge che le squadre rimaste in lizza sono Germania, Finlandia, Stati Uniti e Canada, ovvero le prime quattro dell’altro girone. In altre parole, ieri mattina in aeroporto oltre ai rossocrociati di Patrick Fischer c’erano pure le superstar russe beffate all’overtime da un sempre più sorprendente Canada, assieme ai Kubalik, ai Kovar e agli altri tenori di una Repubblica Ceca eliminate dalla Finlandia col minimo degli scarti. Infatti, ed è proprio questo il bello dello sport, in fondo, non sta scritto da nessuna parte che le cose debbano sempre andare come uno se le immagina.