laR+ Euro 2024

Una fiera che sta sbaraccando

Nell'immediata vigilia della finale dell'Europeo, a Berlino già si respira aria da fine vacanze

14 luglio 2024
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Berlino è talmente grande e dall’anima variegata che, fino alla vigilia, a seconda della zona, potevi pensare che la finale dell’Europeo fosse già in corso, iniziata in anticipo, oppure che non si giocasse affatto qui.

In centro c’erano pub presi in ostaggio dai tifosi inglesi, che in tv riproponevano in loop vecchie partite della loro Nazionale, con tanto di esultanze scatenate ai gol. Mentre gli spagnoli occupavano i prati verdissimi che circondano la zona dei musei e il fiume Sprea, giocando finali immaginarie e caotiche, dove in ogni caso sia a vincere che a perdere era sempre la Spagna, visto che era sempre rossi contro rossi, Casillas contro Morientes, Puyol contro David Villa. Insomma, spagnoli contro spagnoli. Perlopiù ragazzi, ma non solo.

A Kreuzberg, il quartiere alternativo amato dai turisti più giovani e dai bohémien, ma anche quello a più alta densità di immigrati (un abitante su tre non ha la cittadinanza tedesca), potresti dire che di lì a poco giocherà la Turchia a giudicare il numero di bandiere appese alle finestre. A certificare l’estraneità al tutto, anche un gruppo di pakistani diretto a una partita di cricket. L’Europeo di calcio, insomma, non abita qui.

Sabato, lungo Kurfürstendamm, il viale che una volta, quando la città era ancora divisa, era il centro di Berlino Ovest, si vedeva qualcuno con addosso la maglietta della Spagna o dell’Inghilterra, ma giusto qualcuno: non erano molti di più di quelli con la maglia dell’Italia, di Messi o di una squadra di basket.

La gente di Berlino si attardava a bere birra nei dehors, strapieni, o si affrettava per andare a fare acquisti da KaDeWe, il grande magazzino più famoso di Germania (che dopo 116 anni ha dichiarato fallimento nel gennaio scorso, ma è ancora lì, aperto e pieno di quei marchi non adatti a tutti i portafogli).

Poco più avanti, arrivando verso la Gedächtniskirche – la chiesa bombardata e sventrata durante la Seconda Guerra Mondiale e poi lasciata così come si trovava, a futura memoria, alla fine del conflitto – un indizio inequivocabile, accanto al campanile, a fargli da gemello, un cartellone gigante con uno degli enfant prodige del calcio tedesco, Florian Wirtz. Eccolo l’Europeo che scompare e ricompare sui muri, nelle librerie, nei menù dei bar o nei tanti negozi di souvenir paccottiglia che hanno ottenuto dall’Uefa la possibilità di vendere maglie ufficiali dell’Europeo di seconda fascia a 15 euro l’una.

Anche la grande Fan Zone sotto la Porta di Brandeburgo, che si estende per due chilometri fino alla Colonna della Vittoria (dove in “Così lontano, così vicino” di Wim Wenders, il sequel de “Il cielo sopra Berlino” sulla cima, compare l’angelo del film) era formata più da curiosi che da tifosi. Tanti chioschi chiusi, altri che non vendono tutto quel che promette il menù: sembra più una fiera che sta sbaraccando tutto. Eppure manca ancora il gran finale. Anzi, la gran finale.

La mattina della partita – Alexanderplatz a parte, che pare una piazza fuori misura per il numero di persone che l’attraversa – li vedi spuntare tutti, gli inglesi con le birre (compreso un bambino con in mano un pacco da sei) fin dal mattino presto e gli spagnoli che almeno fino a mezzogiorno vanno perlopiù avanti a succhi di frutta e caffè (dopo si convertono anche loro). Tra quelli che oltre alla partita pensano a fare i turisti c’è una coppia padre-figlio che è andata a vedere l’East side Gallery, ovvero quel che resta del Muro dopo che sono passati gli artisti di tutto il mondo a reinventarlo: i due aspettano il loro turno per fare una foto davanti al celebre murale che riprende il virile bacio comunista tra il sovietico Breznev e il presidente della Ddr Honecker. Noto che sulla maglia del padre c’è la scritta F. Tores, che sarebbe Fernando Torres, ma manca una “r”. Gli chiedo da dove arrivano e spero mi risponda Tarragona, per chiedergli con quante “r”, ma sono di Siviglia. Mentre parliamo passa un ragazzo con la bandiera inglese avvolta alla cintola: bisogna ammettere che la sua andatura Made in England ha una sua perversa eleganza.

Intanto inizia a piovere e sotto la pensilina di un bus, a ripararsi, c’è un islandese con la maglia della sua Nazionale. Si chiama Iseldur, vive a Berlino e rimpiange la cavalcata del 2016 quando gli islandesi sconfissero agli ottavi di finale proprio l’Inghilterra. Fu un trauma tale, a Londra e dintorni, che per vario tempo è girata una storiella (a quanto pare falsa, ma gustosa) con protagonista un gruppo di tifosi che alla fine di quella sciagurata sconfitta avrebbe incontrato Bobby Charlton (allora ancora in vita) e gli avrebbe chiesto cosa avrebbe fatto la sua gloriosa Inghilterra campione del Mondo del 1966, e lui: “Avremmo vinto 1-0”. “Ma come? Solo uno zero?”. “Eh, ma adesso abbiamo più di settant’anni”. British humor.

Chi spera di vincere tutto, o almeno qualcosa, è Mateo, nato nel nord dell’Argentina, a San Miguel de Tucuman, ma poi cresciuto fin dalla tenera età in Spagna, a Madrid. Era allo stadio di Monaco per la semifinale contro la Francia, ma non ha trovato il biglietto per la finale (o meglio, l’ha trovato da un bagarino per 1’000 euro, ma non si è sentito di spenderli) e ora spera di festeggiare due volte a distanza di poche ore. Dopo Spagna-Inghilterra, infatti, dall’altra parte del mondo si gioca Argentina-Colombia, finale della Coppa America. “Dovessi scegliere una sola vittoria dico Spagna. Perché l’Argentina ha vinto sia l’ultima edizione della Coppa America che la Coppa del Mondo, poi io sono qui e non lì. Infine, da argentino, veder perdere l’Inghilterra equivale sempre un po’ a una vittoria. Però, questa cosa che sceglierei la Spagna, meglio che mio papà non venga a saperla”.

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