Il Belgio parte bene, ma la squadra di Deschamps, tra fortuna e talento, trova sempre il modo di venirne a capo. Dedice un autogol di Vertonghen
La Francia, il Real Madrid delle nazionali europee, con una quantità di talento tale da doverne lasciare un bel po’ in panchina (e un altro po’ direttamente a casa) vince esattamente come la squadra di Ancelotti: grazie alla qualità dei suoi giocatori, alla fortuna e all’incapacità di cogliere l’attimo da parte dell’avversario.
Un attimo che a volte può durare un tempo, come capitato al Belgio, a volte di più, come era successo nell’ultima finale di Champions League al Borussia Dortmund contro gli spagnoli. Se alla fine del tempo concesso non sei andato in vantaggio (e ad alcuni in passato non è bastato nemmeno quello), alla fine sarà il talento a vincere, anche prendendo strade che col talento confinano soltanto, come accaduto all’85’ quando un tiro apparentemente non irresistibile di Kolo Mouani è stato deviato da Vertonghen quel tanto che bastava per ingannare il portiere Casteels e permettere all’Uefa, che ci ha preso gusto, a certificare il nono autogol del torneo.
Da quel momento il Belgio ci ha provato di nuovo: ma troppo poco, troppo tardi, con un unico guizzo – in pieno recupero – da parte di Doku, che sguscia sulla sinistra, tiene tutti col fiato sospeso, ma ne ricava solo un calcio d’angolo. Tre minuti prima della rete dei francesi, la grande occasione – forse anche più nitida di quella di Kolo Mouani – l’aveva avuta un giocatore a cui il talento di certo non manca come Kevin De Bruyne, che però non ha l’istinto del bomber.
È stata una partita dai due volti, di sicuro pigra da parte dei francesi, che ci hanno messo un po’ a trovare le misure, con Griezmann che parte trequartista e poi scivola sempre più a destra per dare un motivo di preoccupazione extra sulla fascia di Doku, il belga usato come un grimaldello dal ct Tedesco per aprire varchi nella difesa francese che, pur continuando a non sembrare impenetrabile, non ha ancora subito un gol su azione (solo il rigore concesso ai polacchi nell’ultima gara del girone).
Il piano gara dei belgi ha ricalcato quello usato contro la Romania, affollando la prima linea per schiacciare gli avversari, nella speranza di allargarli: quello che all’inizio poteva sembrare un 4-4-2 o un 4-3-3 ibrido con Doku a fare da pendolo, si trasforma spesso in un 4-2-4, complici le avanzate di Carrasco sulla destra, a schiacciare Theo Hernandez abbastanza da farlo rinunciare alle sue sgroppate in avanti. A volte, per tenere ancor più larga la difesa dei Bleus, da destra arrivava il terzino Castagne. Per un po’ ha funzionato: non a caso la Francia si è trovata con tre ammoniti (Tchouameni, Rabiot e Griezmann) dopo soli 25 minuti. La superiorità tattica dei belgi non ha però portato a nulla, se non a mandare in tilt Griezmann, più impreciso del solito negli scambi sullo stretto.
Andati negli spogliatoi sullo 0-0, una volta rientrati in campo, a un certo punto è addirittura venuto il sospetto che il campo fosse in discesa, inclinato verso la curva occupata dai sostenitori francesi. Lì avevano attaccato i belgi nel primo tempo, tenendo sotto scacco la Francia; sempre lì, usando armi simili ai loro avversari, i giocatori di Deschamps hanno portato l’inerzia dell’incontro nella ripresa.
In realtà, il ct dei Bleus ha volutamente alzato il baricentro, liberando Rabiot e puntando sulla tecnica dei suoi nel dialogare in spazi ridotti, facendo affidamento, dietro, sulle capacità di Kanté di coprire sterminate porzioni di campo, aiutato da Tchouameni. Da quel momento la Francia prende il pallino del gioco e non lo molla, se non per brevi tratti, rischiando comunque grosso sia al 61’, quando Hernandez rimonta alla disperata su Carrasco, sia al 70’, quando è Lukaku a liberare il tiro.
Il gol nasce proprio da un’azione corale portata avanti da Griezmann, Mbappé, Rabiot ed Hernandez, con la palla poi allargata sulla destra verso Koundé che scarica per l’onnipresente Kanté: il 13 della Francia trova il corridoio giusto per Kolo Mouani, che poi provoca l’autorete decisiva. In quel momento la Francia era riuscita a portare ben sei giocatori nell’area avversaria. A volte per vincere una partita basta poco, alla Francia addirittura pochissimo.
L’Atomium, Kafka
e le patatine danzanti
Pensavo di andare a Düsseldorf e invece sono finito dentro un luogo comune, con i belgi vestiti da patatine fritte e i francesi con il basco e la baguette. Nonostante le birrerie tedesche, i ristoranti spagnoli, le pizzerie italiane, i kebab turchi e anche un caffè coreano, i belgi sono (quasi) tutti a mangiare patatine fritte, da un olandese però. Urlano di più, cantano di più, bevono di più, sembrano più dei francesi, almeno per le strade della città, dove il tifoso più fotografato è senza dubbio il tizio che gira con in testa l’Atomium (il monumento in acciaio simbolo della capitale belga, o meglio, una riproduzione).
Una libreria, vuota, espone il libro a fumetti di Mbappé, un saggio su Pasolini e il calcio, la storia del Fortuna Düsseldorf, e – lì in mezzo, senza un senso apparente, o forse senza un senso e basta – “Die Aeroplane in Brescia” di Franz Kafka. Dall’altro lato c’è una birreria, piena, con i tavoli che sembrano un’assemblea dell’Onu, se solo l’Onu funzionasse davvero: un messicano, bandiera sulle spalle e sombrero, che parla con un italiano con la maglia di Roberto Baggio; austriaci e olandesi che si abbracciano (già mi suonava strano che gli austriaci abbracciassero qualcuno, figuriamoci un olandese), uno svizzero con la maglia di Senderos che familiarizza con un tedesco con la divisa stile Flamengo con cui, al trionfale Mondiale del 2014, la Germania rifilò sette gol al Brasile, una doppia tavolata di belgi e francesi, tutti mischiati: sembrano disposti a caso, più o meno come la formazione dell’Italia a Berlino, ma più pimpanti.
Fuori dallo stadio, intanto, una specie di Orchestra Casadei locale suona un motivetto irresistibile che fa “Düs, Düs, Düsseldorf” con un megacartoccio di patatine fritte, con dentro un tifoso belga, che si cala per loro nel ruolo di Mauro Repetto negli 883, quello dell’inutile ballerino che non sa ballare.