Romania-Belgio, l'ennesima prova schizofrenica del centravanti dei Diavoli Rossi. E un tributo a uno dei più grandi campioni del vecchio calcio dell'Est
Esci dalla stazione di Colonia, giri a sinistra in cerca della fermata del tram, alzi la testa e subito vai a sbattere contro il Duomo: maestoso, imponente e quasi incombente sui binari, molto più di quanto si possa immaginare. Sotto, proprio sulla scalinata che conduce a una delle chiese più famose di Germania, una muraglia di bandiere romene e magliette gialle. Ogni tanto, tra la folla, se stai attento, s’intravede pure qualche belga, ma sono molti di più i turchi.
A confermare il primo colpo d’occhio, sul selciato, c’è anche un enorme cuore con dentro altri cuori disegnati da una specie di madonnaro del pallone col senso degli affari. Ogni cuore contiene i colori della bandiera di una nazione partecipante all’Europeo: solo due sono più grandi, quello del Belgio e quello della Romania. Sul primo è adagiata una sparuta dozzina di monete, la seconda è quasi coperta da una montagna di spiccioli e banconote di piccolo taglio. Anche il cuore dei turchi, seppur in formato ridotto, contiene più soldi di quello dei belgi. E sorge una domanda: sono solo pochi o sono tirchi?
Spostandosi verso Rudolfplatz, a due sole fermate di U-Bahn, lo scenario cambia: bandiere turche, musica turca, narghilè, dolcetti al miele e pistacchio, magliette di Arda Güler e Çalhanoglu e un viale in cui due negozi su tre vendono kebab: c’è anche una filiale della catena fondata dalla gloria del calcio locale Podolski, cresciuto nelle giovanili del Colonia, esploso in prima squadra e poi tornato per rilanciare la carriera dopo il mezzo flop al Bayern Monaco. La catena si chiama Mangal x Lp10 (che starebbe per Lukas Podolski 10). Sulla porta un ragazzo indossa la maglia della Turchia, chi mi precede alla cassa anche, chi mi segue pure. Ai tavoli fuori nemmeno a dirlo. E così per chilometri. Bevono, parlano a voce alta ascoltando musica a volume altissimo. Chi guida l’auto suona il clacson incessantemente; per strada alcuni ballano accompagnati da una banda folkloristica. Insomma, festeggiano. In tv, intanto, scorre ignorato il secondo tempo di Georgia-Repubblica Ceca.
Se ti guardi attorno diresti che i turchi (mai visti così tanti tutti assieme, se non in Turchia) giocano in città, eppure il calendario parla chiaro: Belgio-Romania. Sembra quasi che la realtà abbia incrociato le strambe idee da Superlega formato Playstation dell’ex presidente juventino Andrea Agnelli, che parlava di un calcio che per piacere ai giovani doveva assomigliare di più a Fortnite, il videogioco dove cento personaggi fumettosi catapultati su un’isola e telecomandati da casa devono tentarle tutte per sopravvivere. Ma non è che ora organizzano partite di calcio con tre squadre? Ancora no.
La nazionale turca è a cento chilometri di distanza, a Dortmund, gioca con il Portogallo e non solo perde, ma lo fa proprio male: sotto di due gol dopo 28 minuti inventandosi anche un’autorete ultracomica con il difensore Akaydin – nome che sembra preso in prestito da Guerre Stellari –, mentre Cristiano Ronaldo nemmeno si accorge che la palla entra perché nel frattempo si è girato per mandare a quel paese Cancelo, reo di non aver fatto quello che diceva lui, cioè dargli la palla. Finirà 3-0 e meno male che i turchi hanno festeggiato prima, perché dopo è toccato ai portoghesi, ora sicuri del primo posto nel loro girone.
Sul grande prato davanti allo stadio compaiono finalmente i tifosi belgi, le cui maglie più gettonate sono quelle di Eden Hazard, di Kevin de Bruyne e della spedizione in Brasile del 2014. C’è anche una bandiera brasiliana con i colori del Belgio e un incitamento in francese al posto di ‘Ordem e Progresso’, ricordo di una delle vittorie storiche dei Diavoli Rossi, quella contro i sudamericani ai Mondiali russi del 2018. Tra la folla, però, non si può non notare un indomabile tifoso romeno con la maglia di Florin Raducioiu, il bomber al contrario in grado di stravincere, con la maglia del Bari, la classifica dei non-marcatori di ‘Mai dire Gol’; poco più in là quattro persone, tutte con la maglia di Gheorghe Hagi, il calciatore più importante della storia della Romania: le metto in fila per scattare una foto convinto di immortalare una fortunata coincidenza. Pochi secondi dopo arriva un’orda di replicanti, sette-otto-quindici-venti ragazzi tutti con la maglia del loro eroe del passato, che nemmeno avranno mai visto giocare, ma poco importa.
Dentro, durante il riscaldamento, compaiono sugli schermi le formazioni. Nella Romania, in panchina, proprio con il 10, Hagi: Ianis e non Gheorghe, è il figlio. In quello stesso momento, cantata all’unisono da belgi e romeni, parte ‘Freed from the Desire’ (se il titolo non vi dice niente è quella che fa: “Freed from Desire, mind and sense purified, freed from desire/Uh, nanananana nana nana…”), uscita nel 1996, 28 anni fa, quando Ianis non era ancora nato e papà Gheorghe, definito il Maradona dei Carpazi per le sue giocate sopraffine e per il suo sinistro fatato (un suo gol alla Colombia, a Usa ’94, resta tra i più belli della storia dei Mondiali) scendeva in campo per quello che sarebbe stato – a distanza di dodici anni dal primo – il suo secondo, ma anche sciagurato Europeo (0 punti per la Romania, 0 gol per lui).
La serata non sarà molto migliore per Ianis, ma la sconfitta dei romeni passerà in secondo piano e perfino quasi la vittoria per 2-0 del Belgio, fondamentale dopo la sconfitta nella gara d’esordio contro la Slovacchia.
La partita era iniziata dopo uno strano conteggio urlato dal pubblico in stile Capodanno (4-3-2-1), con i numeri a lampeggiare sul maxischermo per chi si fosse dimenticato come si conta a rovescio. Un’americanata: sarà il campo da baseball dei Cologne Cardinals, letteralmente dall’altro lato della strada, o molto più probabilmente questa voglia di spettacolarizzare a tutti i costi un momento, come il calcio d’inizio, che spettacolare lo è già di suo.
Dopo 4 minuti è già successo di tutto: gol, rimpalli, cambi di fronte repentini, traverse. Si è visto più qui in quattro giri di lancette d’orologio che in tutte le partite dell’Inghilterra, per dire.
Protagonista del primo gol belga, segnato con un tiro da fuori di Tielemans, è Romelu Lukaku – croce e delizia dei tifosi del Belgio e dei (tanti, troppi?) club in cui ha giocato – che protegge perfettamente la palla in area e la scarica dietro al compagno con una giocata perfetta.
Sembra la serata giusta per sbloccare la maledizione che affligge il centravanti da inizio torneo (due gol convalidati sul campo e annullati per un pelo dal Var contro la Slovacchia), ma include anche lo scorso Mondiale (con una delle prestazioni più tragicomiche del calcio d’alto livello, con errori in serie a meno di un metro dalla porta della Croazia) più un paio di giornate storte nei momenti peggiori, l’autogol decisivo con il Siviglia nella finale di Europa League del 2020 (quando era all’Inter) e la parata involontaria sulla conclusione a botta sicura del compagno di squadra Dimarco nella finale di Champions League dello scorso anno (sempre con l’Inter).
Tutti gli occhi, tutti i commenti, tutti i discorsi sono su e intorno al centravanti belga, che un momento sembra un’iradiddio e quello dopo uno di quei pupazzoni gonfiabili che, bucato, s’affloscia. Passato per anni come l’attaccante che va lanciato verso la rete come una palla di cannone, oggi si trova a suo agio nelle sponde, spalle alla porta. Quando la porta ce l’ha davanti il più delle volte si accartoccia, trasformandosi in un secondo da dominatore del campo ad alieno spaesato che procede per tentativi, incapace di apprendere le leggi della fisica applicate a un pallone.
Il Belgio, che resta molto alto – spesso con una linea a quattro in attacco che lo fa sembrare una squadra messa in campo al contrario – lo aiuta nel renderlo protagonista, schiacciando una Romania capace di far male, ma nemmeno troppo, solo in un paio di occasioni (una, in particolare, quando Man, al 69’, si divora il pareggio faccia a faccia con il sostituto del non convocato Courtois, Casteels). Quando Lukaku finalmente segna lo abbracciano tutti, ma proprio tutti quelli che possono e hanno una maglia rossa: è una liberazione tale, anche in tribuna, che ti viene il dubbio che possano unirsi all’abbraccio anche arbitro e avversari. Il gol però viene annullato dal Var per questione di millimetri. Tutto da rifare, ma non si rifarà.
Il vero raddoppio lo segna De Bruyne, mentre Lukaku, impaziente, si sbraccia. Entra Trossard, che sbaglia tutte le scelte, compreso un gol già fatto a cui rinuncia per metterla in mezzo proprio per Lukaku, che non ci arriva. Sembra una di quelle partite ai giardinetti, in cui – avanti di troppi gol per essere ripresi – chi è in vantaggio cerca di far segnare il più piccolo della compagnia. Solo che lui è il più grosso di tutti e gol in carriera ne ha fatti a caterve (in Premier League più di gente come Drogba, Fernando Torres e Van Nistelrooij). Quando l’arbitro fischia la fine, Lukaku esulta, ma i compagni prima di festeggiare se lo coccolano, lo consolano, come se mancasse qualcosa nonostante la squadra ora torni a rivedere la qualificazione agli ottavi.
Tra i tifosi la più euforica, nonostante tutto, è Marga, una giovane romena che vive a Colonia e che ci tiene tantissimo a farci sapere che ha mangiato la miglior pizza della sua vita nelle Marche. Sventola la bandiera che le avvolgeva le spalle e tira su il morale ai connazionali ricordando loro la classifica: «Siamo ancora primi!». In effetti è così, in un girone in cui tutte le squadre hanno 3 punti, la Romania, a oggi, è quella con la differenza reti migliore. Le basterà un pareggio con la Slovacchia per qualificarsi. Marga, saggiamente, vede il bicchiere mezzo pieno.
Sul tram che ci riporta in centro, dentro a un vagone popolato quasi solo da belgi, a un certo punto il bicchiere non si vede proprio, come tutto il resto, perché all’improvviso si spegne la luce. All’unisono si mettono a cantare in un chiassoso fiammingo da osteria «tanti auguri a te», come se dovesse spuntare una torta con le candeline. E giù risate ubriache di birra e vittoria.
Al di là di come vedano metaforicamente il loro bicchiere, è facile capire che – tra di loro – c'è chi durante la partita ne ha svuotati parecchi.