Dopo le ammissioni dell’ex corridore tedesco sull’uso di sostanze dopanti, torniamo con Antonio Ferretti al ciclismo degli anni Novanta, l’epoca più buia
All’indomani delle dichiarazioni del tedesco Jan Ullrich, che ha finalmente ammesso di aver fatto uso sistematicamente di sostanze proibite durante la sua carriera, riflettiamo su quell’epoca particolare con Antonio Ferretti, che fu ciclista professionista quando ancora le pratiche illecite erano rarissime e, diciamo così, all’acqua di rose, ma che poi – una volta diventato giornalista – si ritrovò a commentare e raccontare il mondo del pedale proprio nel periodo peggiore dal punto di vista del doping, vale a dire quando barare divenne pratica comune, praticamente obbligatoria, se un atleta voleva continuare a correre e a guadagnare.
«È proprio così – conferma l’ex ciclista – i primi anni Novanta furono un po’ il punto di non ritorno per la diffusione del doping, e diciamo che fra il 1996 e il 1998 abbiamo vissuto un po’ l’apice di questo fenomeno, quando tutto prese una piega davvero inimmaginabile. Erano gli anni delle vittorie al Tour de France di Bjarne Riis – che aveva il 60% del sangue formato da parti solide – di Jan Ullrich appunto e di Marco Pantani, poi del caso Festina e poi ancora del dominio di Lance Armstrong, senza dimenticare l’interregno di Floyd Landis e la vicenda Michael Rasmussen. A livello personale, furono gli anni in cui dovetti rendermi conto che il ciclismo – che era sempre stato il mio sogno di bambino – non era quel mondo ideale che avevo creduto, e il mio atteggiamento nei suoi confronti divenne negativo, molto critico. Da cronista, vivevo quell’ambiente molto da vicino, proprio dal suo interno, e dunque venivo a sapere tutto. Quasi nessuno però parlava di queste cose, sia perché ancora non c’erano le prove evidenti, sia perché tutto faceva spettacolo. Noi della Rsi, però, in cronaca qualche accenno al problema lo facevamo comunque».
I giornalisti che si esponevano maggiormente finivano male, perché poi i campioni con loro non parlavano più.
Già, penso soprattutto a colleghi come David Walsh o Pierre Ballester, i primi che ebbero il coraggio di denunciare Armstrong in libri e articoli: lui li derideva e li umiliava nelle conferenze stampa, e ovviamente a loro non concedeva più nessuna intervista.
L’americano, del resto, minacciava in maniera mafiosa anche i corridori che osavano uscire dal coro omertoso di quegli anni.
Esatto, pensiamo ad esempio a Filippo Simeoni o a Christophe Bassons, che furono sue vittime. Bassons una volta in gara si ritrovò in un fosso, spinto non si sa bene da chi, e poi fu costretto in pratica a smettere di correre: chi usciva dal coro rischiava parecchio. Erano anni brutti: il ciclismo magari aveva successo, perché Armstrong e Pantani erano spettacolari, ma era un brutto ambiente.
Ullrich ha detto che non si dopava per barare, ma semplicemente per avere pari opportunità, dato che in pratica lo facevano tutti.
È più che plausibile. Ho visto diversi corridori – che fino circa al 1994 erano del tutto contrari a qualsiasi tipo di doping – ritrovarsi praticamente costretti a iniziare a barare perché altrimenti sarebbero rimasti senza contratto. Dire di no era davvero molto difficile, perché l’alternativa sarebbe stato come correre il Mondiale della MotoGp in sella a una Moto3, dunque senza alcuna chance di vittoria. Nel '94, appunto, iniziò l’epoca dei famigerati medici come Ferrari, Cecchini e i loro colleghi spagnoli, e da lì l’accesso all’Epo e ad altre pratiche divenne facile per tutti. Ullrich, poi, fu un caso particolare perché già da ragazzino, cresciuto nella Ddr, era stato inserito in un meccanismo in cui il doping era la prassi, quindi è del tutto normale che anche da professionista ricorresse a certi trucchi.
Il tedesco, fra l’altro, ha avuto problemi con diverse sostanze anche una volta sceso di sella.
Sì, come Pantani e José Maria Jimenez, anche Ullrich cadde nell’alcol e soprattutto nella cocaina. Epo, testosterone e altre sostanze creano una forte dipendenza, anche perché danno euforia, ti mettono addosso una grande energia, e quindi, quando smetti di prenderle, devi trovare un sostituto, che spesso è la coca: il risultato è che Pantani e Jimenez sono morti giovanissimi, e lo stesso Ullrich ha passato periodi pessimi, dato che – stando a quanto si legge – beveva due bottiglie di whisky al giorno.
E oggi nel ciclismo come siamo messi? Certe cose davvero non succedono più?
Tutti dicono che il capitolo è ormai chiuso. Del resto, molte cose sono migliorate, ad esempio l’alimentazione o i metodi di allenamento. Però, quando vedo certe prestazioni in salita, specie a livello di velocità, a me qualche dubbio comunque sorge, specie quando salgono a oltre 20 km/h su tratti al 15% di pendenza. Vent’anni fa mi si diceva che sprigionare 6,8 watt per kg era già qualcosa oltre il limite fisiologico umano: oggi però Vingegaard e Pogacar vanno parecchio al di là di questa soglia, e dunque qualche perplessità è lecita.