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‘Oggi il doping diffuso non è più possibile’

Jan Ullrich non ha dubbi: ‘L’Uci è più forte e ha più mezzi per contrastarlo, mentre i giovani hanno imparato dai nostri errori’

‘Ai miei tempi era una cosa tollerata’
(Keystone)

«Penso che oggi il doping diffuso non sia più possibile». Parola di Jan Ullrich, l’ex campione di Rostock che a fine carriera aveva ammesso di essersi dopato, intervistato dall’emittente tedesca Zdf a tre settimane dall’inizio di un Tour de France che lui stesso vinse nel 1997. «Credo che la nuova generazione abbia imparato dai nostri errori» aggiunge il Kaiser, ritenendo che oggigiorno l’Unione ciclistica internazionale sia ora molto più forte e disponga di maggiori risorse finanziarie per la lotta al doping.

Ullrich attribuisce anche le ottime prestazioni degli ultimi anni di superstar come i due volte vincitori della Grande Boucle, ovvero il danese Jonas Vingegaard e lo sloveno Tadej Pogacar, a un’alimentazione più curata rispetto a quand’era lui professionista, senza contare che sono migliorate le metodologie d’allenamento così come l’aerodinamica delle bici, tanto da far dire a Ullrich che oggi è possibile primeggiare anche senza doparsi: «Io do una possibilità ai ragazzi, è il mio sport. Lo direi anch’io se capissi qualcosa». Ai microfoni di Zdf, Ullrich ha sostenuto che all’epoca tale pratica nel suo sport era generalmente accettata. La carriera di colui che era considerato uno dei miglior cronoman di sempre si è conclusa quando era stato sospeso dalla sua squadra, la T-Mobile, nel corso del 2006 a causa dei suoi legami con il medico spagnolo Eufemiano Fuentes, prima di essere squalificato per due anni dal Tribunale arbitrale dello Sport (Tas) nel 2012.

Tuttavia, Ullrich non aveva mai ammesso di essere stato coinvolto nel doping fino a novembre dello scorso anno. «Ho barato, sì. Quello che ho fatto non era giusto» ha nuovamente affermato alla Zdf. Dall’alto dei suoi cinquant’anni, oggi parla della sua ingenuità, dei suoi inizi nel ciclismo in cui aveva una visione diversa di tali pratiche, con i dirigenti delle squadre che sostenevano che il doping facesse parte dello sport in generale. «A quel punto è naturale che uno ci pensi, è naturale che tu voglia competere con le stesse armi: non vorresti mai ritrovarti con un coltello in mano nel mezzo di una sparatoria, è così che stanno le cose».

E oggi il Kaiser si spinge a dire che se non si fosse drogato, probabilmente la sua carriera sarebbe finita prima di quando venne squalificato. «Quando mi hanno squalificato ero in uno stato di shock – ricorda –. Per me il doping non era qualcosa di illegale: pensi che faccia parte dell’essere un professionista e lo accetti, perché vuoi continuare a mostrare il tuo talento».

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