Colpito da infarto, si è spento ieri a 79 anni Gigi Riva, portentoso attaccante degli anni Sessanta e Settanta capace di regalare lo scudetto al Cagliari
Prima ancora che per l’Italia intera e per il calcio internazionale, la morte di Gigi Riva è lutto nazionale per i cagliaritani e per la Sardegna, terra che per il bomber divenne patria d’elezione, mai più abbandonata e amata ben più della natia Leggiuno, borgo della sponda lombarda del Lago Maggiore da cui dovette presto staccarsi per finire nel collegio dei bambini poveri quando, a soli otto anni, rimase orfano di padre e sua madre – anche lei destinata a morire presto – si ritrovò senza il necessario per poterlo crescere. «Il silenzio è stata una parte importante della mia vita”, ebbe modo di dire il campione in tarda età, «che quand’ero troppo giovane mi ha detto: Arrangiati»
Andato prestissimo a lavorare sotto padrone, il giovane Gigi passava il suo tempo libero giocando a pallone nei prati, finché qualcuno lo notò e gli consigliò di andare a farlo in una squadra vera. Dal Laveno Mombello – dove segnava più di un gol a partita – lo prelevò il Legnano, squadra di Serie C, quando ancora non aveva compiuto 18 anni. Nemmeno il tempo di ambientarsi e – per via del suo enorme talento unito a una potenza fisica impressionante – dopo una sola stagione fu già ora di rimettersi di nuovo in viaggio, stavolta con destinazione Cagliari, nel campionato cadetto.
Lo voleva anche il Bologna, che proprio quell’anno avrebbe vinto il suo ultimo scudetto, ma i sardi furono più lesti, e fu la cosa migliore che potessero fare, perché quell’attaccante incontenibile era destinato a cambiare la storia dell’isola, e non soltanto a livello sportivo.
L’impatto che Riva ebbe su Cagliari e i suoi abitanti – e di rimando sulla Sardegna intera – fu qualcosa di molto difficile da descrivere pienamente, probabilmente addirittura impossibile. A Gigi bastò una sola stagione – condita da 8 reti e da una leadership indiscutibile malgrado l’età ancor giovanissima – per trascinare i rossoblù nella massima serie, un traguardo che fino a quel momento pareva destinato a restare per sempre una chimera.
Salvatasi lottando il primo anno, nel giro di un paio di stagioni – grazie ai gol di quello che ormai veniva da tutti chiamato Giggirriva – una squadra venuta dal nulla e vittima, come l’intera isola, dei pregiudizi e dei luoghi comuni da avanspettacolo con cui veniva trattata dal resto del Paese, fu addirittura capace di inserirsi nel novero delle squadre, ricche e nordiste, che lottavano per il titolo italiano.
Finché, grazie soprattutto ai tre titoli di capocannoniere conquistati da Riva, un bel giorno lo scudetto arrivò davvero: era il 1970, e il Cagliari – che nel frattempo si era rinforzato con campioni che, sull’esempio di Gigi, avevano accettato di trasferirsi dove nessuno fino a pochi anni prima avrebbe mai voluto metter piede – regalava a tutto il popolo sardo un riscatto sociale che nulla, prima del calcio, era riuscito a dargli.
Corteggiato dai club più ricchi e blasonati d’Italia, non cedette mai alle più che invitanti lusinghe con cui, regolarmente, cercavano di strapparlo alla sua nuova terra. Gigi Riva e il Cagliari – o meglio l’intera Sardegna – divennero una cosa sola, un binomio impossibile da scindere, e sarebbe stato così per sempre. E, ne siamo sicuri, continuerà a esserlo, anche ora che Riva non c’è più, perché lui era, è e sarà, più sardo dei sardi. Sulla sua amata isola, Riva ha messo radici e fatto famiglia, e ogni volta che, per lavoro, gli toccava di andarsene via per qualche giorno, soffriva in maniera inconsolabile.
Tecnicamente, Gigi era antico e moderno insieme: centravanti potente come nella più antica tradizione anglosassone, possedeva però una velocità e un’agilità che lo rendevano rivoluzionario come un’avanguardia rispetto al calcio della sua epoca. Fisicamente impossibilitato a brillare nel dribbling stretto, non aveva però rivali quando si trattava di saltare i rivali in corsa, un po’ sull’intero arco dell’attacco, ma preferibilmente sulla fascia mancina, di cui era il padrone assoluto e da cui rientrava per sparare immaginifiche bordate in diagonale col suo sinistro al fulmicotone, che andavano a gonfiare la rete avversaria con impressionante regolarità, specie in un calcio poco prolifico in fatto di segnature qual era il football italiano fra gli anni Sessanta e Settanta.
Non a caso, ancora oggi resiste il suo record di gol per quanto concerne la maglia azzurra: ben 35 in sole 42 gare, un’efficacia che mai nessuno, c’è da scommetterci, nella Vicina penisola riuscirà mai a eguagliare, nemmeno in questi moderni giorni caratterizzati da difese blande all’inverosimile e di partite con punteggi tennistici.
Gianni Brera, che a inventarsi epiteti era insuperabile, coniò per lui ‘Rombo di tuono’, probabilmente il soprannome più azzeccato dell’intera storia del calcio, capace di rendere alla perfezione l’idea di potenza che si sprigionava dai suoi calci di punizione e dalle sue conclusioni secche da fuori area.
Furono soprattutto i suoi gol a ridare alla Nazionale italiana la dignità che a livello internazionale aveva smarrito ormai da decenni, in pratica da prima della Seconda guerra mondiale. Gli anni Cinquanta furono per gli azzurri una valle di lacrime, e migliore non fu certamente nemmeno la prima metà del decennio successivo, culminata con la vergognosa eliminazione a opera della Corea del Nord al Mondiale inglese, a cui Gigi partecipò solo come apprendista osservatore.
Riva divenne titolare inamovibile proprio dopo quella débacle, e fu – con Rivera e Boninsegna – il simbolo della rinascita italica: il suo contributo fu determinante sia nella conquista del titolo continentale del 1968 sia nel cammino che, due anni dopo, vide la selezione tricolore raggiungere la finale iridata contro il Brasile di Pelé, passando ovviamente per la stracitata semifinale vinta 4-3 contro la Germania Occidentale – da molti considerata la più bella partita della storia – in cui Rombo di tuono pose la sua firma segnando ai supplementari un gol che si rivelerà determinante.
Un grave infortunio condizionò l’ultima parte della sua carriera, e lo indusse infine a smettere di giocare prima del dovuto, lasciando comunque in tutti i suoi tifosi un ricordo meraviglioso e indelebile: definito poeta da Pier Paolo Pasolini, uno che si intendeva di calcio come di parole, Riva – una volta secondo e una volta terzo nel Pallone d’oro – è stato con ogni probabilità il giocatore più amato nella storia della nazionale italiana, di cui fu fra l’altro dirigente per oltre un quarto di secolo.
Negli ultimi anni, coraggiosamente confessò di avere a lungo sofferto di depressione, e pure questo dettaglio contribuì a farlo amare in una maniera speciale. Per la Sardegna e la sua gente Gigi fu ciò che Diego fu per Napoli: e proprio come Maradona, al quale fu dedicato dopo la morte lo stadio partenopeo, Giggirriva darà il suo nome al nuovo impianto dei rossoblù.