L’argentino lascia il Psg e preferisce un maxicontratto a una chiusura di carriera romantica. Maun gol del campionato belga ci ricorda che c’è anche altro
Leo Messi è un paradosso. Capace di far sognare i tifosi di mezzo mondo e di immaginare e creare calcio talvolta oltre i limiti del concepibile (già, Messi è uno di quei campioni che per capire cosa e come ha fatto a volte devi rivedere il video delle sue azioni due-tre volte, e nemmeno basta), non è stato capace di immaginare o sognare un finale di carriera all’altezza della sua storia. E dire che non era difficile.
Messi avrebbe potuto tornare nella sua città natale, Rosario, a vestire i colori della squadra che tifa sin da bambino, il Newell’s Old Boys: un club di culto da cui è passato – lasciando un segno indelebile – uno degli allenatori totem del calcio moderno, Marcelo Bielsa, un club capace di dedicare una curva del suo stadio a un giocatore che ha vestito quella maglia solo 5 volte, certo, quel calciatore si chiamava Diego Armando Maradona. Riportando tutto a casa, innanzitutto se stesso, Messi avrebbe chiuso non un cerchio, ma almeno tre o quattro.
Campione del mondo al quinto tentativo
Restando nel solco di Diego, l’argentino avrebbe magari potuto bussare al Napoli, che ha un presidente bizzoso che però campa di cinema e il valore delle storie lo conosce bene. Immaginate la potenza di una maglia numero “10”, magari rétro, vagamente anni Ottanta, con il nome di Messi sulle spalle. Una storia troppo bella per essere vera. E infatti non lo è.
Persino un ricongiungimento con Guardiola, in una squadra per nulla romantica come è ormai il Manchester City, avrebbe riacceso entusiasmi e prodotto aspettative e storie che potevano andare al di là del numero di titoli vinti, che contano, per carità, ma non sono tutto. Non dovrebbero essere tutto. All’opposto, tentando sempre un approccio alla Premier League, una qualsiasi rivale del City sarebbe stata la premessa per una stagione imperdibile.
Poi c’è il Barcellona, lasciato in lacrime due anni fa perché – si era scoperto – non c’erano abbastanza soldi in cassa per pagarlo. Eppure non era difficile, basta farsi pagare meno. Lo stesso è accaduto nelle ultime settimane, quando a Messi era stato di nuovo accostato il nome del Barcellona, ma “non c’erano le premesse”, ha detto lo stesso Leo, facendo capire che quel matrimonio non si poteva più rimettere in piedi. Le “premesse”, in quella frase, erano il sinonimo di una parola che di solito non è un suo sinonimo: i soldi. Mancavano i soldi.
Come uno sportivo tra i più ricchi del pianeta, capace di generare denaro anche senza fare nulla, anche senza giocare (pensate all’impero creato da Federer negli anni in cui era più fuori che dentro il campo, a Michael Jordan e ai suoi emuli dell’Nba o a Tiger Woods, che a un certo punto della carriera senza mettere piede in campo guadagnava più dei colleghi rimasti a scannarsi sul green) non riesca ad immaginare il suo tramonto sportivo senza accompagnarlo alla “giusta” quantità di soldi, resta un mistero. Come se fosse il denaro a definire quanto vali e non le tue gesta sportive; come se lo stipendio fosse l’unica misura con cui rapportarsi al resto del mondo.
Prima di lui c’era stato Pelé a scoprire l’America
Alla fine Messi andrà all’Inter Miami, una squadra senza storia, nata appena cinque anni fa, che partecipa a un campionato periferico come quello statunitense. Non si capisce ancora per quanti soldi lo farà, ma saranno tanti (chi dice 20 milioni di dollari l’anno, chi 50, chi ancora di più), magari non quanti gliene avrebbero offerti i sauditi (che già si sono presi Cristiano Ronaldo, Benzema e Kanté e hanno una lista della spesa talmente lunga che se la srotolano tocca terra), ma comunque abbastanza per farsi una domanda: quanto vale un finale di carriera di un multimilionario che ha vinto e guadagnato tutto? Che valore dà Messi alla cosiddetta “legacy”, ovvero al suo modo di leggere l’intero arco della sua carriera?
Già Cristiano Ronaldo aveva snobbato l’idea di un romantico ritorno a casa, allo Sporting Lisbona, dov’era sbocciato (ma c’è chi dice che sia lo Sporting a non averlo voluto), Luis Suarez ha flirtato qualche mese con il suo Nacional di Montevideo per poi cedere alle sirene dei brasiliani del Gremio. Ora si dice che – assieme a un altro pilastro del Barcellona, Busquets – potrebbe presto raggiungere l’amico Messi a Miami.
Certo, la Florida, dove si parla più spagnolo che inglese, per i latinoamericani è quasi casa, è un pezzo di Sud finito nell’emisfero nord per sbaglio, un avamposto in cui non ci si sente stranieri. Non a caso anche il nome completo e ufficiale della nuova squadra di Messi è in spagnolo: Club Internacional de Fútbol Miami.
Certo, il suo arrivo darà una spinta non indifferente a un movimento che sembra sempre lì lì per fare il grande salto, ma poi non riesce a imporsi. Proprio negli Stati Uniti (oltre che in Messico e in Canada) si giocherà il prossimo Mondiale: quale miglior ambasciatore del capitano e trascinatore dell’ultima squadra che l’ha vinto?
Keystone
Tempi duri al Psg
I primi risultati si stanno già vedendo al botteghino, dove le prime partite di Messi (che dovrebbe esordire a fine luglio) sono già “tutto esaurito” e quelle poche che contemplano ancora biglietti in vendita hanno moltiplicato i prezzi (a Charlotte i tagliandi da 30 dollari vengono venduti a 150, a Fort Lauderdale sono rimasti quelli da 1’500 e da 5’000 dollari). Insomma, Messi diventa il remake di Pelé dei tempi del Cosmos, battendo in popolarità e stipendio anche la seconda ondata di calciatori-star, quella dei Beckham e degli Ibrahimovic. Sarà un successo, anzi lo è già. Lo dicono i numeri, numeri con molti zeri, senza nemmeno bisogno di toccare un pallone.
Poi però c’è il campo e ci sono le storie di campo, una tra le tante è quella, recentissima, di Toby Alderweireld: non certo Messi, ma pur sempre un calciatore con una carriera invidiabile (Ajax, Tottenham, Atletico Madrid, 127 presenze con la Nazionale belga e anche un passaggio, giusto dirlo, nel campionato qatariota, a rimpinguare il conto in banca). Quest’anno Alderweireld, di mestiere difensore, è tornato in Belgio, ad Anversa, per vestire la maglia del Royal Antwerp, la squadra della sua città, quella che tifava da piccolo.
Nei minuti di recupero dell’ultima partita di campionato, Alderweireld ha segnato, con un gran tiro all’incrocio dei pali, il gol del 2-2 contro il Genk, che fino a quel momento stava vincendo il torneo. Con quella rete il titolo è passato nelle mani dell’Antwerp, che non ne vinceva uno da 66 anni. Ed è chiaro che il campionato belga, come quello americano, svizzero o argentino ha dei costi, è fatto di bilanci e campioni o presunti tali che sgomitano per valere di più, salire nel borsino dei calciatori, su, su, fino a sperare di essere il prossimo Messi, guadagnare come Messi. Eppure vedere quel gol, l’esultanza di Alderweireld, lo stupore dei tifosi non ha prezzo.
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Messi con la maglia dell’Inter Miami