Entrambi fenomenali: il francese lascia il Real e insegue i soldi dei sauditi, lo svedese ha chiuso una carriera con giocate ai limiti dell’incredibile
Stessa storia, stesso posto, bar solo leggermente diversi. Zlatan Ibrahimovic e Karim Benzema hanno scelto, non volontariamente credo, il 4 giugno 2023 per salutare tutti e andarsene per la loro strada. Per una notte San Siro e il Santiago Bernabeu sono diventati il teatro della commozione e del pianto. Non si celebravano vittorie, ma storie, quelle di due centravanti leggendari.
Certo, sono due addii differenti: uno – Ibracadabra – lascia il calcio probabilmente per sempre (anche se con lui mai dire mai: davvero vi stupireste se dovesse stare fermo un anno, rimettere finalmente a posto il ginocchio per poi tornare come nulla fosse?); l’altro – Karim the dream – sceglie il ritiro dorato dell’Arabia Saudita, preferendo i milioni dell’Al-Ittihad (c’è chi dice 200 in due anni, chi 300 o forse addirittura 400, ma è davvero importante?) alla possibilità di vincere un’altra Liga o un’altra Champions League, all’amore dei tifosi del Real Madrid, ai viaggi al Camp Nou, a San Siro, all’Old Trafford, insomma al calcio-che-conta (sempre se c’è un calcio che conta).
Insieme fanno 1’045 gol, quasi 2’000 presenze tra club e nazionali, circa un centinaio tra trofei di squadra e individuali, ma fermarsi a questi numeri sarebbe riduttivo.
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Benzema in gol nella finale di Champions contro il Liverpool, lo scorso anno
Il vero successo di Ibrahimovic e Benzema, quello che li accomuna, è aver contribuito più di tutti a plasmare l’idea di centravanti di questo millennio. Se oggi guardiamo a quel numero 9 sulla schiena come a molto di più di un attaccante grande e grosso capace di buttare il pallone in porta lo dobbiamo soprattutto a loro due. Da questo punto di vista c’è qualcosa di epifanico e circolare in questo addio in contemporanea. Non voglio paragonarli o cercare affinità tra i due, provare a inserirli nello stesso ritratto perché sarebbe forzato. La verità è che sono stati due calciatori estremamente diversi per caratteristiche, carattere e indole, eppure – proprio nelle loro differenze – hanno trovato e portato a termine questa missione comune e oggi non possiamo che ringraziarli.
Ovviamente lo hanno fatto a modo loro: Ibrahimovic è stato il centravanti-catalizzatore, quello che parlava come fosse Dio, che segnava come fosse Dio, che in 23 anni ha girato nove squadre sempre alla ricerca di qualcosa che, forse, ha trovato solo in questa seconda e ultima parentesi al Milan (un qualcosa di più paterno, umano, come si è visto nella notte dell’addio, nelle lacrime di Tonali, nelle dichiarazioni di Leao, nella coreografia che gli hanno dedicato i tifosi, il gioco di parole ‘Godbye’ che copriva tutta la curva rossonera).
Di ogni squadra doveva essere il leader, l’uomo forte. Ibra è stato un magnete gigante, in campo e fuori, capace di attirare palloni, attenzioni, sguardi, critiche. Anche per questo il suo unico passaggio nebuloso è stato quello al Barcellona di Guardiola, nel posto dove non esisteva l’io ma il noi, almeno secondo lo stesso Ibrahimovic che risolse il suo rapporto con il tecnico catalano con un lapidario “È stato come comprarsi una Ferrari e guidarla come una Fiat”.
È stato un limite? Probabilmente, ma ci ha permesso di ammirare un calciatore che l’arroganza la portava in campo, non solo ai microfoni: “Se Parigi rimpiazzasse la Tour Eiffel con la mia statua resterei di sicuro”, disse prima di lasciare il Psg –, un calciatore che ci ha lasciato senza fiato, che guardavamo perché sapevamo che prima o poi ci avrebbe stupito.
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Ibra e la specialità della casa, i gol acrobatici
Di lui ricorderemo alcuni dei gol più belli della storia del calcio: la rovesciata contro l’Inghilterra, il tacco volante contro l’Italia, quello dribblando tutti ai tempi dell’Ajax, ma anche tante altre giocate che poteva fare solo lui. Nessuno più di lui ha rappresentato il calciatore-supereroe capace di segnare gol come se fossero colpi di taekwondo (di cui è grande appassionato), di scagliare tiri con la potenza di un fulmine, di dribblare come se fosse la Playstation.
Non che Benzema non abbia i suoi “momenti”. Forse meno spettacolari da un puro punto di vista scenico, ma non per questo meno importanti. C’era lui a concludere in rete il visionario assist di tacco di Guti, uno dei più belli di sempre; lui a danzare sulla riga in mezzo a tre difensori dell’Atletico Madrid – “il baile de salón sulla linea di fondo del Vicente Calderón” come lo ha chiamato lui – in uno dei più incredibili gesti tecnici visti in Champions League, una giocata che confermava la sua evoluzione da finalizzatore a giocatore a tutto campo. Sua è stata la tripletta con cui il Real ha rimontato il Paris Saint Germain l’anno scorso, o i gol decisivi contro Chelsea e Manchester City, quello in finale di Champions contro il Liverpool, di pura scaltrezza e fortuna.
Benzema in qualche modo è stato l’opposto di Ibrahimovic, il perfetto centravanti-facilitatore, una carriera passata a muoversi in relazione ai compagni, a fare tutto quello che serviva al Real Madrid per vincere e mettere in luce chi gli stava accanto. In Spagna ci è rimasto per 14 lunghi anni (in totale 648 presenze e 354 gol, più di Raúl González Blanco) nella squadra che più mastica e sputa le sue stelle. Non è stato tutto facile o luminoso per il francese: la concorrenza con Higuain, il doversi adattare al cannibalismo offensivo di Cristiano Ronaldo, il ricatto a Valbuena. Sarebbe anche sbagliato negare che, nel corso degli anni, il Real non abbia provato a rimpiazzarlo con qualche acquisto di grido, qualcuno più bello o vendibile. Nessuno però si incastrava meglio con il Real Madrid di Benzema.
Il francese non è stato prolifico quanto Cristiano Ronaldo, non ha avuto l’onnipresenza di Modric, il carisma di Sergio Ramos, le geometrie di Kroos, eppure più di tutti ha rappresentato l’eterna grandezza di questo Real Madrid. Benzema è stato l’ingrediente segreto, quella spezia che magari non capivi bene che cos’era ma ci stava benissimo.
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L’abbraccio tra Benzema e Ancelotti dopo l’ultima partita
Forse per capirlo bisogna guardare agli ultimi anni, quelli in cui il suo ruolo è stato finalmente centrale dopo la partenza del portoghese. Anni in cui il suo talento è stato più continuo, evidente e decisivo. Più volte, mentre il mondo si accorgeva di lui, Benzema ha detto di essere contento che - anche se in ritardo - la gente aveva iniziato ad apprezzare il “suo calcio”.
Il premio per il “suo calcio” è stato il Pallone d’Oro dello scorso anno, il primo e unico della sua carriera, vinto da Benzema a 34 anni. Si può dire che in quella vittoria c’è anche una forma di riscatto per Ibrahimovic, che forse ne avrebbe meritato almeno uno per la sua carriera? Che l’incredibile stagione con cui il francese l’ha vinto – una stagione da 44 gol culminata con la vittoria della Champions League – in un universo parallelo avrebbe potuto farla Ibrahimovic? È una domanda a cui lo stesso svedese risponderebbe digrignando i denti, non accettando il confronto o la necessità di un premio per validare il suo talento.
Perché questo è vero, potremmo metterci qui a confrontare il palmares dei due, la media gol e quella degli assist. Potremmo cercare quante frasi al miele gli hanno dedicato i compagni, quanti ne hanno parlato male. Ci sono tantissimi modi in cui potremmo cercare di mettere uno avanti all’altro, sminuire il modo in cui Benzema si è sacrificato per la squadra ed esaltare la personalità di Ibrahimovic oppure fare l’esatto opposto, schernire Ibrahimovic per essere stato troppo egoista e santificare la capacità di Benzema di lasciarsi abbracciare dal collettivo e vincere con esso. Sarebbero tutti motivi più o meno validi che però oggi lasciano il tempo che trovano. Nel giorno dei saluti quello che conta è l’affetto del pubblico, gli abbracci dei compagni, le loro lacrime.
“Gioco per la gente che capisce di calcio” disse una volta Benzema, una frase da sbruffone che sarebbe stata bene in bocca a Ibrahimovic. Magari noi non capiamo di calcio come avrebbe voluto il francese, ma una cosa domenica l’abbiamo capita. Tra tutte le differenze in campo e fuori c’è un aspetto che ha unito Ibrahimovic e Benzema, una cosa che da oggi rimpiangiamo: una meravigliosa capacità di saper giocare a pallone.
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Un uomo da francobollo