Le parole di Sócrates sbarcato a Firenze nel 1984 stupirono stampa e tifosi. L’impegno politico di un campione speciale in un libro di Lorenzo Iervolino
Come i cittadini di Sant’Ilario si accorsero al primo sguardo che Bocca di Rosa non era portata per la mortificazione della carne e l’ascetismo monacale, così ai tifosi della Fiorentina bastò poco per capire che Sócrates, accolto come cosa venuta di cielo in terra a miracol mostrare, non avrebbe fatto parlare di sé soltanto per le qualità calcistiche. “Non so chi siano Rivera o Mazzola”, fu la prima, spiazzante dichiarazione agli esterrefatti giornalisti italiani, “Sono qui per leggere Gramsci in lingua originale e per studiare la storia del movimento operaio”. E poi, non contento: “Leggo di tutto, ma non i giornali sportivi”. I suoi argomenti di conversazione, in effetti, erano altri: il coinvolgimento della Chiesa cattolica nei regimi militari sudamericani, il cinema di Costa-Gavras e Jean-Luc Godard, i danni del colonialismo e la Guerra Fredda. Non era nuovo, peraltro, ad exploits del genere, sempre sul fil di lama, col rischio di scontentare qualcuno, senza timori reverenziali, riguardi per la diplomazia, peli sulla lingua.
Appena passato al Corinthians, nel 1978, si era presentato così: “Sono felice di essere approdato in un grande club, che ora difenderò come professionista. Ma per quel che mi riguarda io, fin da bambino, sono sempre stato santista, un tifoso del Santos. E continuo ad esserlo”. E avrebbe continuato a esserlo, e a essere socraticamente sé stesso fino all’ultimo dei suoi giorni, quel 4 dicembre 2011 in cui, per una casualità degna del realismo magico sudamericano il Corinthinas vince il suo quinto campionato nazionale. Un lutto e una gioia in ‘Un giorno triste così felice’, come recita il titolo del partecipe omaggio - edito da 66thand2nd - di Lorenzo Iervolino a una delle figure più originali della storia del calcio. Un libro che è un’inchiesta, condotta dall’autore tra l’Italia e il Brasile, intorno ai pensieri e alle parole, oltre che alla vita, di un personaggio difficile da schematizzare. Per gli avversari addirittura incomprensibile, sin dal primo allenamento con le giovanili del Botafogo: “con una naturalezza disarmante gioca sempre in anticipo sui pensieri degli altri”, e ancora: “Sembra decidere scientificamente in quali momenti giocare e in quali pascolare a centrocampo dove, con la scusa di impostare il gioco, prende fiato e aspetta gli ultimi minuti per il rush finale.
L’allenatore asseconda la sua propensione per il ruolo di attaccante centrale con tendenza alla rifinitura e, conquistato dal suo talento, tollera questa discontinuità che diventa una sua caratteristica
comportamentale e addirittura strategica”. In campo le sue intenzioni erano indecifrabili e il senso dei suoi spostamenti incomprensibile. La sua apparente sornioneria, che aveva qualcosa del misterioso contegno dei gatti, non si scioglieva neanche quando aveva il pallone tra i piedi: avrebbe potuto liberarsene immediatamente con un colpo di tacco (il suo marchio di fabbrica, che mandava i tifosi in brodo di giuggiole e lasciava di sasso Pelé), accompagnarla in progressione fino al momento imprevedibile del tiro, scambiarla a ritmi barcellonesi in attesa del momento propizio per affondare, farla passare attraverso spazi che immaginava un attimo prima che si aprissero.
Qualità che a Firenze, nella sua unica stagione all’estero, mostrò con poco socratica parsimonia, risultandogli intollerabili i ritmi, i doveri e la poca allegria del professionismo europeo, da cui ricavò la sensazione di essere passato dal carnevale di Salvador de Bahia alle austere consuetudini di un monastero olivetano. In Brasile si praticava un calcio libero e spontaneo, figlio dell’immaginazione, della tecnica e del desiderio degli schiavi di liberare le caviglie dalle catene, quasi una danza rituale, mentre in Italia prevalevano la pusillanime attitudine difensiva, la tetra sottomissione alla tattica, la pavida tendenza ad adattare i giocatori agli schemi anziché gli schemi ai giocatori.
E così Sócrates dopo le sedute di allenamento finì col rifugiarsi nelle case del popolo, nelle sezioni politiche, nelle osterie dove ridere, cantare e suonare intorno ai tavoli pieni di vino. Una religione del tirare tardi e aspettare il mattino parlando di Schopenhauer e di Epicuro, del Che Guevara e della Repubblica di Platone, da cui il padre gli aveva scelto il nome di battesimo (uno talmente appassionato dei classici greci da chiamare altri due figli Sófocles e Sóstenes e da voler appioppare al quarto il nome Xenophontes, minaccia sventata da una sfuriata dell’esausta moglie). Ma soprattutto una religione incompatibile con i ritiri: “La battaglia non è contro il ritiro di per sé, ma contro il paternalismo che rappresenta. Il ritiro è solo uno degli strumenti che la classe dirigente del nostro calcio mette in pratica per far rimanere calciatori dei bambini bisognosi”, aveva detto negli anni della Democracia Corinthiana, il breve e felice periodo di autogestione che mostrò ai brasiliani soggiogati dalla dittatura militare la possibilità di sovvertire i rapporti di forza e le posizioni di potere.
Il Corinthians era infatti, nella visione di Sócrates, un microcosmo nel macrocosmo della società, un laboratorio democratico, un baluardo di libertà, che sulle maglie recava messaggi politici: “Quello che vendiamo è il Corinthians. E la sua lotta. Noi siamo il prodotto, un prodotto culturale, sociale, siamo un bene del nostro popolo. Gli sponsor credono di poter sfruttare la nostra maglia e invece noi sfruttiamo il
loro linguaggio per sponsorizzare le elezioni statali e far votare la gente. La passione che fagocita la logica del capitale. Tutto torna».
Ma non tutti apprezzavano: “Io posso solo dire che noi giocatori brasiliani siamo al servizio dei cittadini-tifosi che tanto ci sostengono. Se il governo non vuole che si parli liberamente, noi parliamo liberamente. Se non vuole che i cittadini decidano in maniera diretta, noi lo facciamo. Provate a scrivere questo”. L’ultima frase era l’ennesimo guanto di sfida nei confronti dei giornalisti.
Tornando all’esperienza italiana, ecco il ricordo del dirigente della Fiorentina Tito Corsi: “Tanti giocatori avevano un atteggiamento servile nei confronti della stampa, ma lui no. A lui non passava neanche per l’anticamera del cervello. Anzi, a volte sembrava sfidarli, i giornalisti. Finita la partita spesso si faceva trovare con la birra in una mano e la sigaretta nell’altra, e quelli non vedevano l’ora. Io gli dicevo “ma aspetta dieci minuti, vai in sala stampa e poi ti bevi la tua birra”, ma lui non ne voleva sapere, diceva che non c’era nulla da nascondere, che lui era un uomo libero. Però più faceva così e più attirava solo critiche, così lo hanno etichettato subito per quello che non era”. Quando decise di tornare in Brasile, in molti capirono quello che non era e ne sentirono subito la nostalgia: il cuore tenero non è una dote di cui sian colmi i gazzettieri, ma quel giorno a prender l’aereo
l’accompagnarono malvolentieri.