I tifosi del club berlinese, contestatori del regime ai tempi della Ddr, hanno un legame viscerale col loro stadio, che hanno ricostruito con le loro mani
"Il teatro dei Sogni", "La Scala del calcio", "La Catedral". Ci sono stadi dai soprannomi altisonanti che provano a contenere in poche parole una storia, un’atmosfera. E poi c’è lo Stadion an der Alten Försterei, letteralmente lo "stadio vicino alla vecchia casa del guardaboschi", che sembra un altro soprannome e invece è il nome vero. Molto esatto e molto tedesco. Senza fronzoli eppure pieno di poesia, se la sai trovare. Come molto tedesca è la storia dell’Union Berlino, la squadra che ci gioca dentro da sempre, da quando l’hanno tirato su, nel 1920, al confine con il bosco di Wuhlheide, a Köpenick, che in quello stesso anno perse lo status di comune per diventare un altro pezzo del grande Berlino.
Era il periodo in cui la capitale si espandeva a vista d’occhio. Poi, con l’inizio della Guerra fredda, la tagliarono in due: di qua Berlino Ovest, di là Berlino Est. Di là c’era la Vecchia Foresteria, lo stadio che si era preso il nome e anche quelli che ci giocavano dentro, che non erano nemmeno un granché, ma non era importante, perché – come in ogni altro club al mondo e qui pure un po’ di più – quelli che contavano erano i tifosi. E, appunto, lo stadio.
Quella squadra scalcagnata, talmente in periferia che arrivarci era un viaggio, è rimasta tale per decenni: al netto delle competizioni locali ha una bacheca praticamente vuota, dove c’è un solo, impolverato trofeo, la Coppa della Germania Est del 1968, che è anche l’anno della Primavera di Praga, dove un popolo alzò la testa contro i soprusi del proprio regime e dell’Unione Sovietica, proprio come faceva – nel suo piccolo – il pubblico dell’Union Berlino ogni maledetta domenica.
Con la Coppa della Germania Orientale vinta nel 1968 (Wikipedia)
Era lo stadio degli operai e degli irregolari, di chi non si riconosceva nella Ddr, in quel comunismo arrivato in coda al nazismo tanto da finire per somigliargli, nei volti ingrigiti di Walter Ulbricht prima ed Erich Honecker poi, gli uomini che hanno diretto il partito telecomandati da Mosca. La curva dell’Union Berlino era un posto a sé, dove potevi dire, perfino urlare, cantare cose che altrove non potevi nemmeno sussurrare; che nemmeno in casa tua potevi dire, perché nella Ddr una persona su tre collaborava col regime, e se parlavi in una stanza con altre due persone – anche se era la tua stanza – e tu non eri una spia, beh, ci voleva davvero poco a fare i conti.
Quello stadio insomma, era l’unico sfogatoio pubblico dell’intero Paese. Andarci era un atto di ribellione, era un morso proibito alla libertà: a quel punto vincere o non vincere era un di più.
Oggi che l’Union Berlino – arrivato dopo un infinito girovagare nelle serie inferiori – vince, issandosi fino al primo posto della Bundesliga, vincere conta, ovviamente. Ma alla fine sempre un po’ meno che altrove, come se anche i tifosi più giovani, quelli nati in Germania e basta, senza più Est e Ovest, avessero assimilato la lezione dei padri. Il "Dna di una squadra", si dice: la Juventus brutta e vincente nei secoli dei secoli, il Barcellona palleggiatore e spettacolare, l’Ajax dei giovani, il Tottenham sprecone. Anche l’Union ha il suo, fatto di un rapporto viscerale con quello stadio dal nome strano, che ti chiedi come fanno a sentirlo così loro, eppure è loro davvero. Almeno in parte.
I divani dei tifosi sul campo da calcio durante il Mondiale 2014 (Keystone)
Quando nel 2008 ci si trovò davanti al bivio tra un nuovo impianto e l’ammodernamento dell’amata Foresteria, i tifosi non ebbero dubbi, anche se c’era da rimboccarsi le maniche. La squadra era stata appena promossa dalla quarta alla terza serie e le casse erano mezze vuote: finì che i tifosi si accollarono parte del lavoro regalando 140’000 ore della loro vita al club della loro vita: elettricisti, falegnami, muratori o anche semplici volenterosi indirizzati da chi sapeva cosa fare. Nei pressi dello stadio, assieme alla casa del guardaboschi, ora c’è perfino un curioso monumento: un grosso casco rosso da operaio sostenuto da una base con tutti i nomi di chi ha contribuito, col denaro o col sudore (spesso con entrambi), all’ampliamento dello stadio, diventato poi in parte di proprietà degli stessi tifosi.
La storia dicono che si ripete, ma a volte fa semplicemente giri strani trasformandosi nella famosa vendetta servita fredda: nel periodo in cui lo stadio rimase chiuso per lavori, l’Union finì a giocare nell’impianto della Dinamo Berlino, i rivali durante gli anni della Ddr. Rivali che baravano: erano infatti la squadra di Erich Mielke, capo della Stasi. Ogni mezzo era buono per far vincere la Dinamo, dalla razzia dei migliori giocatori di altre squadre allo squilibrio nelle scuole calcio (negli anni d’oro alla Dinamo ne furono assegnate 36, all’Union appena 5) per non parlare degli arbitri, che non andavano nemmeno corrotti, perché se arbitravano sfavorendo la squadra di Mielke li aspettava qualcosa di peggio. E loro lo sapevano.
Così l’Union perse per anni partite, giocatori e occasioni. Nella stagione 2008-2009, nello stadio prestato dai rivali, l’Union vinse anche il campionato di terza serie. Nel frattempo aveva battuto la Dinamo 8-0, un successo che è diventato parte integrante del nuovo stadio: infatti, quando non si giocano partite, sul tabellone ricompare quel risultato. D’altronde, negli anni dell’Union ribelle, sugli spalti si cantava "a Berlino ci sono solo due club, l’Union e l’Hertha", omettendo volutamente la Dinamo. L’Hertha era la squadra rimasta all’Ovest, amata e tifata da molti nella Ddr: 79 giorni dopo la caduta del Muro, l’Hertha ospitò nel suo Olympiastadion l’agognato derby con l’Union finito 5-3 per i padroni di casa davanti a 52 mila persone: ma anche lì, il risultato interessava a pochi.
La vecchia casa del guardaboschi ora è la sede del club (Wikipedia)
Nel frattempo la casa del guardaboschi è diventata il quartier generale della squadra, mentre lo stadio, ai Mondiali del 2014, è diventato la cosa più simile a una casa quando il club ha avuto l’idea di far vedere la competizione sul maxischermo dello stadio. Ognuno poteva portare il proprio divano da casa e aveva a disposizione lampada e tavolino personalizzato: alla fine i divani erano più di 800 e la Germania vinse quel Mondiale. Altra tradizione casalinga è ormai la festa di Natale, avviata - come al solito - da uno sparuto gruppo di tifosi nel 2003 e diventata un appuntamento che attira decine di migliaia di tifosi.
La diversità dell’Union Berlino sta anche nel suo inno, "Eisern Union" ("L’Unione di ferro"), che è anche il nome della tifoseria. Lo canta Nina Hagen, icona punk che frequentava lo stadio da bambina insieme al padre. E proprio padri, nonni e amici che non sono più su questa Terra sono stati i protagonisti della prima coreografia al ritorno in Bundesliga: con chi c’era che teneva in alto le fotografie di chi non c’era più.
L’icona punk Nina Hagen, tifosa e cantante dell’inno (Keystone)
Sembrava dovesse essere una coincidenza, un premio alla carriera, una meteora l’Union Berlino in Bundesliga, la squadra del popolo, caciarona e squattrinata; invece sotto la guida dello svizzero Urs Fischer sono riusciti ad arrivare undicesimi al primo anno, poi settimi e l’anno scorso addirittura quinti, a un punto della Champions League (qualificandosi per l’Europa League). In questa stagione hanno battuto il ricchissimo Red Bull Lipsia e gli amati cugini dell’Hertha, poi pareggiato con la corazzata Bayern Monaco, che vince il titolo ininterrottamente da dieci anni. Sembrerebbe impossibile fare di meglio, ma sembrava impossibile anche vedere il Muro cadere, battere la Dinamo 8-0, ricostruire uno stadio fai-da-te e trasformare un campo di calcio in un salotto con 800 divani.
Festa in campo per tifosi e giocatori (Keystone)