Trentacinque anni fa a Milano moriva il calciatore argentino da cui prese il nome una posizione del centrocampo
La storia di Carlos Martìn Volante, i cui capitoli ci porteranno in vari Paesi di due continenti, inizia nel 1905 a Lanus, periferia Sud di Buenos Aires dove i suoi genitori, poveri piemontesi della provincia di Alessandria, si erano stabiliti a fine Ottocento sulle orme di milioni di italiani che li avevano preceduti. Come molti ragazzini, Carlos crebbe dribblando nei potreros, campetti di strada ricavati negli spazi non ancora edificati fra una macchia di case – o di baracche – e l’altra. Gli stessi dove cinquant’anni dopo si sarebbe formato Diego Armando Maradona, nato a pochi isolati di distanza.
Svezzato nella polvere e dotato di grande grinta e fisico statuario, a 18 anni venne ingaggiato dal Lanus, dove giocò tre stagioni. Poi transitò un po’ a fari spenti dal Velez Sarsfield e dal San Lorenzo, dove non riuscì a incantare nessuno. Infine, quando da tutti era dato per disperso, approdò al Platense, dove le sue doti vennero finalmente riconosciute.
Il problema era che lui, giocando da mediano in un modo tutto suo, mai visto prima, fin lì aveva sempre spiazzato i suoi allenatori, ancorati a schemi ben definiti che in pratica impedivano ai giocatori di abbandonare la loro precisa zona di campo. Volante, invece, aiutava i difensori e gli attaccanti – ai quali spesso si sostituiva – come nessun mediano aveva mai fatto, decidendo di volta in volta come muoversi, mettendo in discussione enunciati tattici che nessuno aveva mai osato confutare. E guadagnandosi, proprio per la capillarità del suo raggio d’azione, il soprannome di Omnibus, oltre alla convocazione nella Nazionale albiceleste e alla copertina di El Grafico, il sogno di ogni futbolista argentino.
Forse fu proprio quella maniera rivoluzionaria di interpretare il ruolo che affascinò i dirigenti del Napoli quando nel 1931, insieme ai colleghi di tutte le altre squadre del Belpaese, scesero a Montevideo e Buenos Aires a fare razzia di campioni dal cognome italico, com’era di moda ormai da qualche anno. Non fu facile convincere Carlos a firmare il contratto: innanzitutto perché stava per intraprendere una tournée col Velez e poi perché diceva che sua madre non avrebbe retto allo strazio di vederlo partire verso la misera terra da cui lei era fuggita, e così i partenopei, capita l’antifona, raddoppiarono l’ingaggio: 150mila lire da dividere fra Platense e famiglia del ragazzo, oltre a 4mila lire mensili al giocatore. Niente male, considerato che la famosa canzone in cui mille lire al mese erano ritenute un patrimonio uscì soltanto sette anni più tardi.
Ma sotto il Vesuvio – dove a Volante sfilarono l’orologio appena sbarcato – malgrado in attacco giostrassero bomber di razza come l’italo-paraguayano Sallustro e l’istriano Vojak, le cose non andarono come tutti speravano. E a nulla servì la presenza in panchina dell’inglese William Garbutt, che aveva diretto il Genoa nei 15 anni più gloriosi della storia rossoblù ed era considerato una specie di profeta. La squadra chiuse nona in classifica e a pagare furono Volante e il suo gioco per nulla convenzionale: dai sudamericani tutti si attendevano gol a grappoli, mica queste follie da registi arretrati. Carlos fu dunque spedito dapprima a Livorno, dove conquistò la promozione in A, e poi al Toro, dove non lasciò traccia se non nel cuore di una ricca ragazza milanese figlia di un diplomatico, che porterà presto all’altare.
Arruolato dall’Italia mussoliniana ma per nulla intenzionato a svolgere la naia, sfruttò il potere del suocero per varcare le Alpi – dapprima verso la Svizzera e da lì in Francia – e vestire senza troppa gloria le maglie di Rennes, Lille e CA Paris, una delle tante squadre della capitale, dove il mediano sui generis passava più tempo coi musicisti di Josephine Baker, di cui era diventato amico e compagno di avventure e bagordi, che sul rettangolo verde.
Siamo nel 1938, quell’anno la Francia ospitava la Coppa del Mondo e Volante, intenzionato a rientrare nel giro che conta e desideroso di lasciare l’Europa dove già spiravano venti di guerra, riuscì a farsi ingaggiare come massaggiatore dalla Nazionale brasiliana, che in effetti era giunta in Europa – per risparmiare un po’ sui costi della traversata atlantica – priva di alcuni membri dello staff.
Durante gli allenamenti, Carlos non si limitava ad assistere e a intervenire con la borsa del ghiaccio, ma spesso nelle partitelle il selezionatore Pimenta lo metteva in campo per far numero. E Volante si muoveva così bene da indurre Domingos da Guia e Leonidas da Silva – i due fuoriclasse verdeoro – a proporgli di giocare addirittura nel Flamengo di Rio de Janeiro, il loro club. Hai 33 anni – gli dicevano – sei vecchietto, ma ci piace quel tuo modo originale di fare il centromediano: forse per una stagione potresti anche reggere.
In realtà , di annate al Flamengo Carlos ne giocò ben cinque, e lo fece così bene da guadagnarsi – oltre a molti trofei prestigiosi – addirittura un posto definitivo nella storia del calcio mondiale. Quel suo modo rivoluzionario di interpretare la posizione di centromediano d’ordine – coi piedi buoni per impostare la manovra, una spiccata vocazione difensiva ma pure uno sfrontato coraggio nei raid offensivi – fece in modo infatti che il ruolo in questione dai primi anni 40 finì per assumere proprio il nome di volante, grazie alla semplice eliminazione della maiuscola dal suo cognome. Come avvenne per la biro, in pratica, e per fortuna di tutti non si chiamava Kvaratskhelia.
Devi muoverti come Volante, presero a dire gli allenatori ai loro mediani. Prova a giocare da Volante, ripetevano a chi se ne stava un po’ troppo fermo in mezzo alla propria trequarti. L’espressione ebbe successo pure presso i giornalisti, che immediatamente la fecero propria. E così dapprima in Brasile, poi in Argentina e infine nell’intero continente sudamericano – ma per la verità anche altrove – quel tipo di centrocampista, spesso schierato col numero 5 sulle spalle, venne per sempre chiamato volante.
Parliamo di gente del calibro di Didì, Gerson, Falcao, Redondo, Xavi Hernandez e Kanté – giusto per fare qualche esempio – ma anche di giocatori come Leo Junior, Deschamps, Rafa Marquez, Paulo Sousa, Veron e Brozovic, che almeno in certe fasi della loro carriera hanno giocato, chi più difensivo chi più offensivo, in quella posizione.
A 38 anni, pluridecorato e diventato ormai una voce nei dizionari, Carlos Martin Volante lasciò il campo per la panchina, cominciando a Buenos Aires – dove allenò il suo Lanus – per proseguire a Porto Alegre dirigendo l’Internacional (2 titoli Gaùchos), e poi a Salvador sulle panchine di Vitoria e Bahia, alla guida del quale nel 1959-60 vinse il primo Campeonato Brasileiro Serie A, la famosa Taça Brasil.
Non fu però soltanto per i successi – e per il fortunato processo che rese il suo cognome un nome comune – che il nostro eroe passò alla storia: si dice che a scartare Garrincha dopo un provino al Vasco da Gama fu proprio Volante che, data un’occhiata alle gambe asimmetriche del ragazzino, gli consigliò di cambiare mestiere.
Garrincha non si arrese, andò a postulare dai tecnici del Botafogo – meno distratti – che lo ingaggiarono e ne fecero l’ala destra più famosa del calcio mondiale. Una volta pensionato, Carlos Martìn Volante tornò ad attraversare l’Atlantico, al seguito della moglie che aveva nostalgia di Milano. E fu proprio all’ombra della Madonnina che morì esattamente 35 anni fa, ottantaduenne, lasciando in eredità a un intero continente la parola per definire uno dei ruoli più affascinanti del gioco del calcio.