Il 5 luglio del 1982 ai Mondiali di Spagna si disputò una delle partite più significative della storia del calcio, anche per la nostra realtà
Nella nostra regione ci sono svizzeri che odiano gli italiani malgrado siano assai preziosi per l’economia del Paese, e c’è una parte di italiani che detesta gli svizzeri benché Elvezia le abbia offerto opportunità di riscatto altrove inesistenti. Quest’ultimo tipo di italiani, se c’è di mezzo il pallone, fa il tifo per qualsiasi squadra giochi contro i rossocrociati. E, allo stesso modo, gli elvetici in questione supportano chiunque sia chiamato a sfidare gli azzurri. Ma, se l’avversario dell’Italia è il Brasile, lo fanno con gusto ancor maggiore perché la formazione verdeoro, si sa, è in genere l’amante ufficiale di ogni calciofilo ticinese, specie durante i periodi di vacche scheletriche per la Nazionale svizzera, com’era il caso negli anni 70 e 80, quando a Mondiali ed Europei non si qualificava mai. Con simili premesse, risulta facile capire quanto alle nostre latitudini fosse alto l’interesse attorno alla partita che il 5 luglio del 1982, alla Coppa del mondo disputata in Spagna, metteva di fronte appunto italiani e brasiliani. Nei giorni di vigilia, in bettola, nelle botteghe e sul posto di lavoro, fra le due fazioni non mancarono quindi scommesse, sfottò e pure qualche schiaffone.
A livello tecnico, i sudamericani erano strafavoriti. Imbottiti di fuoriclasse e perfetti interpreti del loro tradizionale futebol bailado, nelle prime quattro gare affrontate in terra iberica avevano mostrato meraviglie: 2-1 all’Urss, 4-1 con la Scozia, 4-0 sulla Nuova Zelanda e, nella prima gara del gironcino che metteva in palio un biglietto per le semifinali, 3-1 contro l’Argentina di Menotti, che era campione in carica. Il Brasile, sotto una dittatura militare che calpestava i diritti umani e immiseriva le classi già povere, riversava sulla Seleçao tutti i propri sogni. Nemmeno l’Italia, per la verità, se la passava benissimo: minacciato da terrorismo, cassa integrazione e da una massoneria che teneva in ostaggio le istituzioni, il popolo trovava solo parzialmente conforto in Pippo Baudo, nel Mulino Bianco e in Albano e Romina. Oppio degli italiani avrebbe potuto essere il pallone, com’era accaduto più volte nel passato, ma stavolta proprio non pareva possibile. Le figuracce rimediate nelle Coppe europee nell’ultimo decennio, lo scandalo delle scommesse del 1980 e le recenti pessime prestazioni degli azzurri avevano fatto disamorare gli italiani perfino del calcio. Non erano pochi, infatti, coloro che affermavano di voler seguire le partite del Mundial solo per farsi quattro risate sulle disavventure di una squadra bollita e guidata da un rincitrullito come Enzo Bearzot, che alla vigilia del torneo era rimasto senza estimatori (nemmeno fra i dirigenti federali), fatta accezione per un paio di giornalisti fuori dal coro come Darwin Pastorin e Gigi Garanzini.
I risultati, del resto, davano ragione ai disfattisti. Il primo turno degli azzurri era stato disastroso: 0-0 con la Polonia, 1-1 contro Perù e Camerun e qualificazione al gironcino raggiunta soltanto grazie alla differenza reti (+1) nei confronti degli africani. Era una squadra abulica, senza idee e priva dei suoi migliori attaccanti: lo juventino Bettega, azzoppato mesi prima in Coppa campioni, non si era ancora rimesso del tutto e il Ct lo aveva lasciato a casa. Proprio come il romanista Pruzzo – capocannoniere degli ultimi due campionati – mai davvero entrato nelle grazie del tecnico friulano. Paolo Rossi, che avrebbe dovuto provvedere alla bisogna, era invece un fantasma, toccava pochissimi palloni e li sbagliava quasi tutti. La sola prova decente dell’Italia, prima della sfida al Brasile, era stato il successo contro gli argentini nel gironcino. Gli azzurri, però, si erano imposti soltanto 2-1 a fronte del già citato 3-1 inflitto all’Albiceleste da Zico e compagni. E dunque il Brasile, oltre a godere del favore di ogni pronostico, si presentava al match contro l’Italia provvisto di un ulteriore vantaggio: per accedere alla semifinale gli sarebbe infatti bastato il pareggio.
I ticinesi antiazzurri – stando così le cose – gongolavano, mentre agli italiani non restava che votarsi a santi, talismani e riti propiziatori. Solo con un miracolo, era evidente, sarebbero riusciti a qualificarsi. Quel Brasile schierava infatti al contempo assi del calibro di Eder, Socrates, Zico, Falcao e Cerezo. Oltre a Junior, per esubero di stelle spedito sulla fascia a fare il terzino. L’Italia invece di nomi grossissimi non ne aveva: al massimo, poteva contare sulla compattezza del blocco juventino (6 titolari) e sullo stato di grazia di un’ala dai piedi educatissimi – Bruno Conti – che fuori dai patri confini era sconosciuto e che dunque nessuno fin lì si era preoccupato di studiare e neutralizzare. L’attacco, come detto, dipendeva da Rossi, che quattro anni prima in Argentina aveva fatto faville diventando Pablito, ma che se n’era stato in tribuna durante le ultime due stagioni per via di una squalifica. Nel calderone del calcioscommesse era finito anche il suo nome: non aveva puntato un soldo, non ci aveva perso né guadagnato nulla, ma fu ugualmente punito.
Gli italiani, in quegli anni, si aspettavano processi e condanne per autori e mandanti delle stragi di Brescia, Milano, Bologna e Ustica, che non giunsero mai. Ma, come contentino, ricevettero in cambio l’esemplare pena inflitta al centravanti del Perugia, punito perché sapeva dell’intrallazzo attorno alle partite di calcio, ma non aveva parlato, come probabilmente avremmo fatto tutti. Era tornato dunque in campo da poco più di un mese, e pareva il cugino scarso dell’uomo che nel ’78 al Monumental, insieme a Bettega, aveva scudisciato l’Argentina sotto gli occhi dell’aguzzino Videla.
Ma il 5 luglio dell’82, allo stadio Sarria di Barcellona, Rossi tornò a essere Pablito e il Brasile subì un’umiliazione paragonabile nel passato solo a quella incassata in casa dall’Uruguay nei Mondiali del ’50 (Maracanazo) e, nel futuro, alla lezione impartitagli dalla Germania nel 2014 (Mineirazo). I verdeoro, infatti, oltre ai campioni assoluti citati sopra, in campo mandarono pure difensori assai allegri (Leandro, Oscar e Luizinho), un centravanti più che inadeguato (Serginho) e Valdir Peres, un portiere che pareva messo lì contro la sua volontà. A Paolo Rossi, rinsavito di colpo per prodigio divino, non restò che approfittare delle scelleratezze della retroguardia sudamericana, mentre a Gentile, Oriali e Bergomi (presto subentrato a Collovati) fu sufficiente francobollare italianamente i top player avversari come nessuno nel corso del torneo aveva osato fare.
Tre volte la punta toscana portò in vantaggio gli azzurri, ma il Brasile seppe reagire solo alle prime due, col dottor Socrates e con Falcao, l’ottavo re di Roma: al terzo gol di Rossi – più che mai di rapina – risposero soltanto con un colpo di testa di Oscar, che Zoff provvide però a inchiodare sulla linea tracciata col gesso. E la stampa italica prese a incensare quelli che, fino al giorno prima, aveva coperto di guano.
Nelle case di tutto il Ticino – ma visto che si giocava a las cinco de la tarde – anche negli uffici e nei bar dove molti si fermarono a guardare il match, le sguaiate scene di giubilo degli italiani si mescolarono all’incredulità rabbiosa degli svizzeri, traditi nel peggiore dei modi dall’amante su cui avevano riposto ogni speranza. Le scommesse furono onestamente pagate, così come inevitabile fu assistere a nuove prese per i fondelli e a qualche ulteriore sano cazzotto. Una storia infinita – quella della rivalità fra Ticino e Belpaese – che certo non mancherà di ripresentarsi il prossimo autunno. Stavolta però a parti invertite: da qualche tempo infatti a non qualificarsi per il Mondiale, e a dover puntare su cavalli presi a prestito, sono gli italiani.