Lo spareggio mondiale di domani a Cardiff fra attualità e personaggi del passato
La nazionale di un Paese in guerra da 100 giorni, umiliato e ormai privato di un quinto del proprio territorio, è giunta contro ogni pronostico fino all’ultimissimo match utile per guadagnarsi un posto alla fase finale della Coppa del mondo. Ciò che la selezione ucraina ci sta mostrando ha davvero dell’incredibile. Quasi nessuno, infatti, dopo l’invasione russa avrebbe scommesso un franchetto sulla presenza in Qatar della formazione guidata dal sessantacinquenne Oleksandr Petrakov, uno che, fra l’altro, i Mondiali li ha già giocati e vinti: quelli Under 20, nel 2019. Il biglietto, beninteso, non è ancora staccato: fra gli ucraini e il torneo iridato ancora si frappone il Galles, avversario di domani sera a Cardiff. Ma in un certo senso è come se Zinchenko e compagni la qualificazione l’avessero già conquistata, date le particolari condizioni psicologiche a cui sono sottoposti da oltre tre mesi. Andare a vincere 3-1 in Scozia, infatti, non sarebbe stato facile per nessuno, figuriamoci per un gruppo di ragazzi col cuore e il pensiero costantemente rivolto alle sofferenze dell’intera popolazione e alla sorte dei loro coetanei – magari amici o parenti – che ogni giorno combattono e muoiono al fronte.
Eppure mercoledì sera – nel penultimo atto di questi playoff – gli ucraini ci sono riusciti, sicuramente forti del tifo di quasi tutto il mondo ma senza favori da parte di nessuno. Si tratta dell’ennesima dimostrazione – oltre che della forza morale di questi calciatori – della qualità del football ucraino, da sempre fra le migliori scuole dell’Est. Ai tempi dell’Urss, infatti, la maggior parte dei più forti giocatori proveniva da Kiev e dintorni. Gli unici Palloni d’oro nati da quelle parti, non a caso, sono tutti ucraini: parliamo di Oleg Blochin (1975), Igor Belanov (1986) e naturalmente Andrij Shevchenko, che il trofeo lo vinse nel 2004, quando ormai, dopo lo smantellamento sovietico, l’ex stella del Milan poteva giocare sotto le insegne della propria nazione. E ucraino era pure Valerij Lobanovski, che negli anni 70 e 80 fu il tecnico di riferimento a oriente della Cortina di ferro grazie alle due Coppe delle coppe e alla Supercoppa europea conquistate sulla panchina della Dinamo Kiev, che guidava con mano ferma e metodi per l’epoca rivoluzionari. Il Colonnello dell’Armata Rossa Lobanovski – che era un tipo tutto d’un pezzo – aveva fatto del calcio una scienza esatta, dell’allenamento una tortura e della durezza una religione. Ma, soprattutto, era uno che al talento anteponeva sempre i postulati euclidei. Queste peculiarità fecero di lui un’icona mondiale del pallone, certo. La sua rigidità, però, rappresentò al contempo pure il suo limite maggiore. Era infatti fermamente convinto che ogni giocatore potesse ricoprire qualsiasi ruolo, a patto che fosse ben allenato. E così, nella finale dell’Europeo del 1988, affidò il divino Van Basten alla marcatura di Alejnikov, che aveva dei pregi, per carità, ma certo non era un difensore. Mossa alquanto azzardata, specie se si tratta di neutralizzare il più forte centravanti della storia. E infatti il bielorusso ebbe gravi responsabilità su entrambi i gol olandesi. Nel poco tempo che restava da giocare, i sovietici provarono in tutti i modi a reagire, anche contravvenendo ai dettami del loro allenatore, ma riuscirono soltanto a colpire un palo e a fallire un rigore. Fu il canto del cigno di una scuola calcistica che – pur vincendo pochino – aveva comunque tracciato una via, quella dell’approccio scientifico al gioco del pallone, poi adottato sotto varie sfumature nel mondo intero.
Erano gli anni della Perestroika, che al vecchio Lobanovski non faceva né caldo né freddo, ma certo non lasciava indifferenti i suoi ragazzi, che per la prima volta si vedevano offerta la chance di approdare nel ricco mondo del calcio occidentale, seppur sotto il rigido controllo di governo centrale e Ministero dello sport sovietico, che deteneva la proprietà del cartellino degli atleti e che avrebbe trattato direttamente coi club intenzionati a ingaggiarli. Fra i primi a far le valigie ci fu Sacha Zavarov, ovviamente pure lui ucraino, che partì con la benedizione di Lobanovski, suo mentore sia in nazionale sia alla Dinamo Kiev. Ad assicurarsi i suoi servigi fu la Juventus, che cercava l’erede di Platini, ritiratosi l’anno prima. I bianconeri sganciarono 5 milioni di dollari, equamente ripartiti fra ministero dello sport, governo sovietico e Dinamo Kiev. Nell’affare ebbe un ruolo determinante la stessa Fiat, che in Urss aveva grandi interessi già da molti anni. Lo stipendio del fantasista, nemmeno mille dollari al mese, veniva pagato dalle autorità di Mosca, che in pratica trattenevano nelle proprie casse l’intero ingaggio. Zavarov, chiamato a rappresentare l’impero sovietico nel ricco calcio italiano – che all’epoca era il più bello del mondo – non fu in grado di reggere la pressione. Poche scintille appena sbarcato e poi due anni grigissimi, per la disperazione di Zoff che, prima di relegarlo in panchina, provò a schierarlo senza successo in ogni zona del campo, ricavandone soltanto un paio di gol, altrettante espulsioni e parecchi infortuni immaginari. Non si ambientò mai e non diceva mezza parola: l’interprete che lo seguiva come un’ombra – e che guadagnava più di lui – era in pratica disoccupato. Fu la seconda enorme delusione di una Juve ormai alla fine di un ciclo, dopo il fallimento di Ian Rush, che era tornato al Liverpool lo stesso giorno in cui Zavarov metteva piede in Piemonte.
Rush, guarda caso, era gallese e ciò ci riporta allo spareggio di domani sera a Cardiff, dal quale moltissima gente in tutto il mondo – per solidarietà verso un Paese aggredito e in gravi difficoltà – vorrebbe veder uscire vincente l’Ucraina. Ma i Dragoni, ovviamente, non staranno certo a guardare. Del resto, meriterebbero il visto per il Qatar tanto quanto gli ucraini. La crescita della selezione gallese, negli ultimi anni, è stata costante e significativa. Dopo decenni di lontananza dal calcio che conta, il Galles nel 2016 ha centrato infatti la sua prima qualificazione a un Campionato europeo, dove incantò e giunse fino in semifinale, fermato soltanto dal Portogallo futuro campione. E quattro anni più tardi, non dimentichiamolo, Ramsey, Bale e compagni riuscirono a bissare la qualificazione al torneo continentale: davvero niente male per una nazionale che, all’inizio del millennio, orbitava oltre la centesima posizione dei valori mondiali. A dare il via alla rinascita del football gallese fu il compianto Gary Speed, a cui – dopo oltre 600 partite giocate in Premier League – alla fine del 2010 venne affidata la panchina della nazionale. In breve tempo, l’ex idolo di Leeds e Newcastle riesce a trasferire ai giocatori la sua grinta, il suo senso del sacrificio, la sua idea del gruppo compatto come elemento fondante e imprescindibile. In pochi mesi, il ranking dei Dragoni migliora dal 117° al 45° posto, e la squadra acquista l’autostima che fin lì non aveva mai avuto. Fu l’inizio di un processo di crescita destinato a durare a lungo. A interrompersi, purtroppo, fu invece la vita di Speed. Una sera d’autunno del 2011, dopo un litigio, la moglie di Gary sbatte la porta e se ne va a dormire in macchina, in fondo al vialetto. Lui scende invece in garage e intreccia il nodo scorsoio che – a 42 anni – tronca la sua esistenza e fa calare le tenebre su quella dei suoi bambini. Il mondo del football piange una leggenda e non riesce a darsi risposte. Speed infatti era ricco, celebre, realizzato. E nessuno immaginava che – dentro di lui – un mostro stesse scavando la voragine che un giorno l’avrebbe inghiottito. L’eredità di "Mister Nice Guy" venne raccolta dapprima dal suo amico Chris Coleman – che accompagnerà la squadra addirittura nella top ten planetaria – poi dalla leggenda Ryan Giggs, e infine da Robert Page, il tecnico che potrebbe riportare il Galles alla Coppa del mondo dopo un’assenza che dura ormai da 64 anni. Immaginiamo che domani sera al Cardiff Stadium a dare una mano ai padroni di casa ci sarà, in qualche forma, anche Gary Speed.