Sette anni da difensore, un primo flop, il successo nell’imprenditoria e poi una serie di scelte azzeccate che ne ha aumentato il valore in campo e fuori
Il 14 febbraio del 1993 l’Atalanta è terza in classifica e qualcuno si chiede perché non se ne parli. "Siamo terzi in classifica da due mesi, ma si parla di noi solo adesso, perché giochiamo contro il Milan", dice l’attaccante nerazzurro Maurizio Ganz. La squadra guidata da Marcello Lippi ha 23 punti, gli stessi della Lazio, ma adesso è chiamata al salto di qualità contro il Milan invincibile di Fabio Capello, che viene da una striscia di risultati utili che dura da 54 settimane.
La sensazione euforica è che possa essere proprio l’Atalanta a tagliare la testa al drago, d’altra parte in casa ha già battuto il Napoli, la Roma e la Juventus, quest’ultima proprio pochi giorni prima che a Bergamo arrivassero i rossoneri. Tra Milano e Bergamo, però, corre buon sangue, e il giovane presidente della ‘Dea’, Antonio Percassi, sembra guardare al club rossonero come un modello. "Ma lo sapete che all’estero la prima cosa che chiedono a me che sono italiano è il Milan? È riuscito a mettere in secondo piano perfino la mafia. Dobbiamo imparare da una società come quella", dice Percassi, che secondo Repubblica ha portato all’Atalanta "una gestione più moderna, meno artigianale".
Percassi aveva esordito da presidente dell’Atalanta poco più di due anni prima, proprio contro il Milan. Era l’11 novembre del 1990, di nuovo a Bergamo: una decina di giorni prima aveva rilevato la squadra dopo la scomparsa del precedente presidente, Cesare Bortolotti.
Percassi, ultimo accosciato a destra, sotto a Gaetano Scirea, nell’Atalanta 1973-74 (Wiki)
Sulle tribune dell’allora Atleti Azzurri d’Italia era stato attento a sedersi accanto a Silvio Berlusconi, socio d’affari in alcuni investimenti immobiliari. Percassi, in confronto a lui, era ancora in erba. Allora aveva da poco compiuto 37 anni e il suo impero era ancora nelle prime fasi della sua espansione.
Aveva iniziato poco prima del suo ritiro da calciatore, con i risparmi messi da parte in quella breve carriera che l’aveva visto giocare per sette anni all’Atalanta e poi smettere dopo appena due partite al Cesena, come se non ce la facesse a indossare altri colori.
A 25 anni aveva già dismesso i panni del calciatore e ancora prima aveva iniziato a pensare di buttarsi nel franchising, investendo nella catena d’abbigliamento Stefanel, che da un piccolo negozio nei pressi di Treviso era cresciuta al punto di pensare di poter fare concorrenza a Benetton. Ironico, per Percassi, che dopo quell’esperienza fece il salto nel mondo dell’imprenditoria proprio grazie alla vicinanza a Luciano Benetton, portando i suoi negozi monomarca prima a Bergamo e poi nel resto del mondo.
Forse da Benetton, forse da Berlusconi, Percassi aveva appreso l’importanza dello spettacolo. Appena diventato presidente dell’Atalanta aveva messo in cima alle priorità la costruzione di un nuovo stadio scintillante, che secondo quanto aveva anticipato Repubblica "dovrà ricalcare il modello bomboniera dell’impianto di Montecarlo o degli stadi di football americano". Prima ancora della sua costruzione, comunque, la stagione 1992/93 sembra poter far sedere l’Atalanta al tavolo dei grandi. La squadra di Lippi riesce a fermare il Milan sull’1-1 e chiude il campionato in settima posizione, a un passo dalla qualificazione alla Coppa Uefa.
Zapata e Freuler contro Neymar durante i quarti di Champions 2020
Tanto basta a Percassi per sentirsi sufficientemente sicuro di lanciarsi nel vuoto per provare a spiccare il volo. In estate accompagna alla porta Marcello Lippi, come se non fosse stato sufficiente lanciare uno degli allenatori più promettenti della Serie A, e dal mazzo della Serie C pesca Francesco Guidolin, che la stagione precedente aveva guidato il Ravenna alla promozione con un gioco spumeggiante. "Reggiana e Ravenna le ho viste diverse volte quest’anno: anche quando perdevano, i tifosi uscivano dallo stadio contenti malgrado tutto", dice Percassi con orgoglio "Guardiamo il Foggia: ha sempre fatto notizia. Io voglio che si parli dell’Atalanta, di come gioca bene, esattamente come l’anno scorso parlavano del Ravenna di Guidolin"
La mossa ricalca quasi alla perfezione quella che qualche anno prima fece proprio Silvio Berlusconi, che aveva lanciato il Milan nell’iperspazio assumendo un misconosciuto allenatore visionario, Arrigo Sacchi, che infatti accoglie l’arrivo di Guidolin all’Atalanta con un telegramma d’auguri.
A Bergamo sembra stia per arrivare una nuova era, e per prepararsi all’appuntamento con il futuro la squadra nerazzurra si sistema, cambiando il suo stemma per la prima volta. Le cose, però, vanno tutte al contrario del previsto. Dopo l’illusoria vittoria inaugurale contro il Cagliari in casa, la difesa a zona di Guidolin inizia a fare acqua da tutte le parti e l’Atalanta incappa in una striscia di nove partite consecutive senza vittorie in campionato, conclusa dalla disastrosa sconfitta a Lecce per 5-1.
Percassi non riesce a tenere la nave nella tempesta e, non vedendo nemmeno lo spettacolo che aveva promesso in estate, esonera Guidolin, chiamando dalle giovanili un altro giovane allenatore esordiente, Cesare Prandelli. Le cose vanno di male in peggio: l’Atalanta dovrà aspettare l’ultima partita del 1993, contro il Genoa, per una vittoria. Nella seconda metà del campionato, di diciotto partite, la "Dea" ne vincerà appena due, curiosamente entrambe contro l’Inter ed entrambe per 2-1. Le restanti dieci sconfitte e sei pareggi condannano l’Atalanta a una retrocessione inequivocabile. E mentre la rabbia dei tifosi si rovescia su Bergamo, Percassi è costretto a lasciare il suo posto come un sovrano in fuga.
Il nuovo stadio dell’Atalanta (Keystone)
Passano anni di esilio imprenditoriale in cui l’esperienza maturata con Benetton viene replicata prima con Zara e poi con moltissimi altri brand (da Nike a Gucci, da Ferrari a Ralph Lauren). Il successo è tale che Percassi si avventura anche in aree lontane dal semplice retail creando nuovi brand di successo, come Kiko.
Sono anni in cui i suoi affari vanno talmente a gonfie vele che forse inizia a pensare che non è poi così un peccato se il calcio non è più il suo mestiere. Ma la fine della sua prima esperienza da presidente dell’Atalanta è stata troppo improvvisa, troppo traumatica per non lasciare un vuoto da provare a colmare di nuovo. La sua storia con la "Dea" viene riannodata nell’estate del 2010, quando la prende in consegna questa volta da Alessandro Ruggeri, figlio di quell’Ivan Ruggeri che aveva preso il suo posto nel 1994.
Quello che torna a Zingonia a distanza di 16 anni è un presidente diverso, meno impulsivo, che dietro un nuovo annuncio di uno stadio di proprietà ("un gioiello da 20mila posti") nasconde la consapevolezza che anche lo spettacolo deve poggiarsi su basi solide. "Dovremo rifondare l’intera struttura, sia dal punto di vista tecnico che da quello ambientale", dice appena arrivato. Prima lo sport, quindi, e poi tutto il resto.
Si comincia dal potenziamento del settore giovanile, diventato un fiore all’occhiello dell’Atalanta da quando in società è entrato il leggendario Mino Favini, voluto proprio da Percassi agli inizi degli anni ’90. Anche se lascerà la Dea nel 2015, è lui a tracciare la prima linea: "Noi siamo l’esatto contrario dell’Udinese. Loro prendono giocatori già selezionati, noi invece partiamo dai ragazzini di 8 anni e li portiamo fino al campionato Primavera".
Gian Piero Gasperini portato in trionfo dai suoi giocatori (Keystone)
Poco prima dell’uscita di scena di Favini (scomparso nel 2019), Percassi mette anche il secondo mattone, Giovanni Sartori, che aveva già fatto le fortune del Chievo. È lui a capitalizzare l’oro della Primavera, trasformandolo poi in acquisti che, anno dopo anno, hanno permesso all’Atalanta di essere sempre più competitiva tra le prime squadre della Serie A.
Due anni più tardi, l’ultimo ritocco: l’ingaggio di Gian Piero Gasperini - una scelta che riflette quella di Guidolin ma che allo stesso tempo rappresenta tutta la distanza tra il primo e il secondo Percassi. Un tecnico offensivo e spettacolare, sì, ma non contro-culturale, con un bagaglio di fallimenti in Serie A tale da forgiarne l’esperienza nei momenti più difficili. "Non credevo che questo calcio offensivo potesse svilupparsi in una squadra di provincia", ha ammesso Percassi nell’estate del 2020, poco prima dello storico quarto di Champions contro il Psg "era un rischio, ma adesso compiremo dieci anni in Serie A, un record nella storia del club. Non ci aspettavamo una trasformazione di questo tipo, con un tipo di calcio rivoluzionario".
Negli ultimi anni Antonio Percassi si è gradualmente ritirato dalla vita pubblica, lasciando il comando della squadra a suo figlio Luca, che ha seguito diligentemente le sue orme. Anche lui, come il padre, è cresciuto da calciatore nell’Atalanta, e anche lui, come il padre, si è ritirato sulla soglia dei 25 anni poco dopo essersi separato dalla "Dea" (a 17 anni passò al Chelsea nell’operazione che portò a Londra Samuele Dalla Bona). Secondo Antonio Percassi, il fatto che siano entrambi ex calciatori li aiuta a "capire come funziona lo spogliatoio" e ad "affrontare i momenti difficili - perché nel corso di un campionato incontri sempre delle difficoltà".
Forse è questo che ha convinto i nuovi proprietari americani (che l’hanno pagata 350 milioni di euro per il 55%) capeggiati da Stephen Pagliuca a lasciarli entrambi al comando dell’Atalanta, d’altra parte dopo i risultati degli ultimi anni voi cosa avreste fatto? Questo è il momento in cui si guarda a ciò che si è fatto, più che a ciò che si farà.
Pochi giorni fa, nella conferenza pre-partita del playoff di Europa League contro l’Olympiakos, lo ha fatto anche Gasperini, parlando della cessione dell’Atalanta a cui ormai la sua storia è indissolubilmente legata. "Quando il presidente e Luca Percassi mi hanno avvisato della situazione che si stava concretizzando c’è stato un momento di grande emozione, abbiamo avuto la sensazione di avere fatto qualcosa di molto importante".