Il 36enne senegalese nuovo giocatore del Lugano si è presentato: oltre alla sua esperienza e ai gol, in campo porta la lotta contro le discriminazioni
«Va bene?». Una semplice espressione in italiano per chiudere la conferenza stampa di presentazione – tenuta nella sua lingua madre, il francese, ma lui parla anche inglese, senegalese, spagnolo e un po’ di tedesco – che però dice già molto di Demba Ba e della sua voglia, a 36 anni e dopo aver già girato il mondo prendendo a calci un pallone, di mettersi nuovamente in gioco nella sua nuova avventura a Lugano.
«Ho sempre amato viaggiare, anche con la mia famiglia e ho scoperto molti paesi e culture, nonché imparato diverse lingue, per cui non posso che essere contento di avere l’opportunità di apprenderne un’altra e di conoscere anche la Svizzera, tutto questo rappresenta una grande ricchezza per me», ha spiegato l’attaccante senegalese nato e cresciuto in Francia, per il quale Lugano potrebbe non rappresentare solo una (l’ultima?) tappa della sua carriera da calciatore. Come si evince d’altronde dalla stessa genesi del suo arrivo in bianconero, favorito da quella che avrebbe dovuto essere la nuova proprietà del club ma poi concretizzatosi grazie in particolare all’attuale azionista di minoranza Leonid Novoselskiy... «Avevo altre offerte, ma a Lugano ho trovato delle persone che mi hanno dato fiducia e mi hanno proposto un buon progetto. In particolare circa due mesi fa sono venuto qui per la prima volta e ho incontrato Leonid, parlando con lui di calcio ho apprezzato il suo modo di pensare e la sua visione e solo in seguito abbiamo cominciato a discutere di un mio possibile approdo a Cornaredo. Non nascondo che parlando con Leonid un pensiero al post carriera l’ho fatto, perché ormai da diversi anni lui investe con passione energie e denaro nel settore giovanile del club e visto che come detto siamo in perfetta sintonia sulla visione del calcio, se potrò dargli una mano grazie all’esperienza che ho accumulato in questi anni lo farò con piacere. Per il momento però ho firmato un contratto di un anno come calciatore e mi concentro su questo».
Già, cosa pensa di poter dare al Lugano un giocatore che dopo aver vissuto i suoi anni migliori in Inghilterra tra il 2010 e il 2014 – in particolare le due stagioni con il Newcastle (29 gol in 59 partite di Premier League) gli hanno spalancato le porte del Chelsea, dove però non sempre ha trovato spazio, accumulando 7 reti in 33 presenze – ha passato gli ultimi 7 anni tra Turchia e Cina? «A Lugano porto la mia esperienza a livello europeo e speriamo anche delle reti per poter garantire vittorie e punti alla squadra. Cercherò di aiutare i compagni sia in campo sia nello spogliatoio, ma mi approccio a questa esperienza anche con umiltà, per conoscere la cultura del Paese e per apprendere dai giocatori che sono già in rosa, magari hanno qualità che a me mancano. Penso che la squadra abbia già dei veri attaccanti, giocatori che lavorano duramente ogni giorno in allenamento. Ho sentito parlare molto della filosofia di gioco un po’ difensiva dei bianconeri nel corso dell’anno passato, non è un modo di stare in campo che facilita le punte e forse anch’io non avrei fatto meglio dei giocatori schierati, per cui ho tanto rispetto per chi è arrivato prima di me».
Un sistema di gioco che con l’avvicendamento in panchina tra Maurizio Jacobacci e il nuovo tecnico Abel Braga, sarà giocoforza differente, a cominciare dal modulo a due punte supportate da un trequartista, nella fattispecie Mattia Bottani... «Ho discusso con il tecnico prima di firmare per il Lugano e mi ha spiegato di avere uno stile molto offensivo, con pressing alto e ciò mi è piaciuto perché per un attaccante è ideale. Personalmente, come tutti gli attaccanti, preferisco avere un compagno a fianco, quando hai un sostegno è meglio. Inoltre mi piace partecipare alla creazione del gioco, con scambi ravvicinati e una spalla che corre negli spazi non per forza per me, anche attirare i difensori avversari è importante per la squadra».
Allenatosi per la prima volta assieme al resto del gruppo ieri mattina, per Ba potrebbe volerci un po’ di tempo innanzitutto per ritrovare la forma migliore e in seguito per adattarsi a un calcio svizzero che conosce poco… «Fisicamente non sono ancora pronto ma non sono nemmeno lontano, conosco il calcio e so che la preparazione è un processo normale che richiede il suo tempo. Penso che dopo qualche partita le cose cominceranno a girare per il verso giusto anche dal profilo fisico. Per quel che riguarda il campionato svizzero, con il Chelsea abbiamo affrontato il Basilea nel 2013 in Champions League ma non ero in campo (nella partita di ritorno persa 1-0 al St. Jacob, mentre proprio all’andata contro i renani, vittoriosi 2-1, aveva fatto il suo esordio nella competizione, ndr), poi un paio d’anni or sono con il Basaksehir ho segnato due reti allo Young Boys. In ogni caso il calcio di un determinato Paese assomiglia un po’ alla sua cultura. Ne ho parlato con il mio amico Gael Clichy (dallo scorso dicembre in forza al Servette, ndr) che mi ha detto che qui ci sono molti giovani talenti e questo lo differenzia ad esempio dalla Turchia, dove la maggior parte dei giocatori ha dai 25 anni in su. Conosco bene ad esempio Peter Zeidler e so che il suo club (il San Gallo, ndr) valorizza molto i giovani. Penso sia un calcio che ha intensità e qualità e questo mi piace».
Durante tutta la sua carriera, Demba Ba si è sempre mostrato molto sensibile al tema del razzismo e in molti si ricorderanno la sua reazione in difesa del camerunese Pierre Webo, vice-allenatore del Basaksehir che al 13esimo della sfida di Champions tra la squadra turca e il Psg era stato chiamato “negru” dal quarto uomo, il rumeno Sebastian Coltescu. I giocatori delle due squadre erano poi rientrati per protesta negli spogliatoi e prima di riprendere e concludere la sfida il giorno seguente (con una nuova direzione di gara), si erano inginocchiati alzando il pugno in un gesto che molti (ma non tutti) stanno riproponendo anche agli Europei in corso... «Purtroppo il razzismo è ancora troppo presente nel mondo del calcio e non credo nemmeno che questo problema verrà risolto in tempi brevi. Sono troppi anni che se ne parla ma che poi concretamente si fa davvero poco, perché si potrebbe fare cento, mille volte di più. Quanto al gesto di inginocchiarsi, se qualcuno ritiene che possa contribuire a cambiare le cose fa bene a metterlo in pratica, ma anche gli altri sono liberi di pensarla diversamente. L’importante è che si faccia qualcosa di concreto e questo non possiamo farlo noi giocatori, che possiamo sì dire la nostra e provare a influenzare il sistema, ma non abbiamo il potere di cambiarlo davvero. Bisogna iniziare dall’educazione dei giovani, spiegando che il colore della pelle e la cultura non sono e non possono essere discriminanti. Spero che se un giorno uno dei miei figli giocherà a calcio, potrà farlo senza questo tipo di problemi».
Per il suo modo di porsi, il 36enne senegalese – che sostiene anche la fondazione "Football is more", la quale attraverso in approccio inclusivo sfrutta il potere del calcio per aiutare ragazzi socialmente, fisicamente o mentalmente "svantaggiati" – è stato definito un leader intellettuale della lotta contro le discriminazioni… «Non mi considero un leader, un leader ha dei seguaci e io non ne ho. Scherzi a parte, mi batto per le cause che ritengo giuste, per apportare il mio contributo per migliorare le cose che penso dovrebbero andare meglio nel mondo in cui viviamo oggi, nella speranza di riuscire un giorno a vederne i risultati».