Intervista a Fabio Grosso, campione del mondo con l'Italia nel 2006, oggi tecnico del Sion. Fu lui a realizzare il rigore decisivo in finale contro la Francia
Il punto di partenza non può che essere quel 9 luglio 2006, a Berlino, nel giorno della finale della Coppa del mondo in Germania vinta dall’Italia, ai calci di rigore, contro la Francia. C’ero. Ero accomodato in tribuna, il computer sulle ginocchia, giacché un tavolo non c’era, troppa richiesta. C’era l'accredito, però, e ancora lo conservo. Con l'accredito al collo ti si spalancano le porte dello stadio di una finale di un Mondiale. In veste di inviato, hai il privilegio di vederla dal vivo e di commentarla. Il picco, dal punto di vista professionale.
Fu un lungo film, quel Mondiale. Segnato, per la Svizzera, dal match di Dortmund davanti a 80’000 spettatori, 55’000 dei quali elvetici. Un esodo senza eguali nella storia dello sport elvetico. Macchiato, sempre quel Mondiale, dalla brutta eliminazione agli ottavi contro l’Ucraina. Dall’occasione persa di affrontare nei quarti proprio gli Azzurri.
Ebbene, l'ultimo fotogramma di quel film raccontato episodio dopo episodio, l'epilogo del quale ha condotto gli Azzurri sul tetto del mondo, ritrae Fabio Grosso, autore del rigore decisivo della finale, il quinto, complessivamente il nono.
Lo sguardo concentrato, ma apparentemente sereno, il sinistro incrociato che si insacca, un'esecuzione talmente perfetta da farne una sorta di rigore ideale, da manuale. Un rigore dal peso e dal valore incommensurabili, che ha consegnato l’attuale tecnico del Sion alla storia del calcio. Lui e la sua esultanza, spot visto e rivisto, scena “da milioni di contatti” (come si direbbe oggi), con la quale l’Italia ricorda uno dei suoi trionfi storicamente più belli. Celebrato (e anche in questo caso consegnato alla storia), dal brano “Seven Nation Army” dei "The White Stripes". Un tormentone, le cui note risuonano ancora spesso, facendo tornare alla memoria una finale resa memorabile anche dalla famigerata testata di Zidane a Materazzi.
Non è di tante parole, il mister del Sion. Non amo spenderne troppe. È lui a ricordarlo. «Perché le parole le porta via il vento, e si perdono - spiega, comunque divertito -. A me piace piuttosto fare parlare i fatti. Ma qualche eccezione la faccio volentieri».
Lo apprezziamo mister. Del resto, questo è un lavoro che le persone tende piuttosto a farle parlare. Inoltre, ci consenta la punta di ammirazione, quando l'interlocutore è un campione del mondo, dal nostro punto di vista il grado di coinvolgimento sale, e ogni parola acquista peso, ogni ricordo legato alla sua carriera ha una valenza straordinaria.
Quindi, partiamo da quel rigore lì, il cui filmato è ormai iconico. «Sono passati talmente tanti anni da quell’episodio che quasi me ne dimenticavo. Scherzi a parte, è un ricordo talmente intenso che lo porto sempre con me, anche se mi serve sempre meno per quello che sto facendo adesso. Ma è sempre piacevole ricordare quelle sensazioni che sono state incredibili».
La sua espressione tradiva una strana serenità, al momento dell’esecuzione. «Tranquillo? Non esageriamo. C’era pressione, c’era adrenalina… Fortunatamente tutto è andato per il meglio».
Il vero capolavoro, chissà se è d’accordo, l’Italia di Marcello Lippi lo fece in semifinale, contro i padroni di casa della Germania. Fu quella, la partita perfetta. E chi la decise? Fabio Grosso, naturalmente, con un sinistro a giro chirurgico che beffò Neuer al 119’, a un minuto dal termine dei tempi supplementari, prima che Del Piero suggellasse il trionfo azzurro con il 2-0 un minuto dopo. Prima di quei rigori che avrebbero potuto sancire la fine del percorso di un gruppo irripetibile e che, invece, cinque giorni dopo li consegnarono alla storia. «Fu una cavalcata trionfale, la nostra. Ogni passaggio fu fondamentale per farci arrivare in fondo nel modo in cui ci siamo arrivati. Per tagliare il traguardo finale devi per forza superare tutte le tappe intermedie. Per il lavoro che svolgo adesso, però, a me piace mettere l’accento sulla coesione del gruppo, su quanto fossimo tutti perfettamente concentrati sul medesimo obiettivo. Su quanto conti riuscire a creare quell'alchimia, quelle situazioni all’interno della squadra che rendono di qualche punto percentuale più facile la scalata verso risultati importanti. Conservo un ottimo ricordo di quell’impresa, ma tendenzialmente a me piace guardare avanti. Indietro m volto un po’ di fatica, perché oggi faccio altro. E mi piacerebbe essere ricordato in futuro anche per le cose nuove che sto facendo».
Per chiudere con il passato, ritiene che quella generazione di calciatori, quel gruppo che comprendeva i vari Buffon, Del Piero, Totti, Cannavaro, Pirlo, sia irripetibile? «Di irripetibile non c’è niente. Quello era un gruppo con tantissimi campioni, ai quali ci siamo aggiunti noi, gli altri. Siamo stati capaci di farci trovare pronti quando si è trattato di giocare con loro. È stata una generazione ricca di fuoriclasse, ma l’Italia sta tornando a sfornarne altri. Nella storia sportiva di un movimento ci sono periodi più luminosi, altri un po’ più avari. L’Italia resta però un paese che si è sempre fatto trovare e sempre si farà trovare pronto nelle varie competizioni».
Concetto interessante, quello espresso da uno che è pur sempre campione del mondo, e quel Mondiale l’ha griffato con la propria firma (due gol così decisivi li realizzano pochissimi, nel calcio, e dovremmo scomodare i miti): c’erano i campioni, e poi c’eravamo noi, gli altri…
«Lo dico senza falsa modestia. Sia ben chiaro, sono molto contento e orgoglioso della carriera che ho fatto, ma sono pur sempre un ragazzo che a 23 anni giocava ancora nelle categorie inferiori. La mia è stata una scalata lungo un percorso molto ripido. Ripido quanto bello. Non ero il 17enne talentuoso pronto a incidere in serie A. Per me è stato faticoso salire. Sono passato attraverso tante difficoltà. Alla fine, forse, farcela così è stato addirittura più bello. Così come è stato impagabile condividere un traguardo così prestigioso con tutti quei campioni di quella generazione, ai quali mi fregio di essere stato utile».
Utile ai fini della conquista della vetta. Giacché più su... «Per me è come se fossi andato oltre la cima. Come dire… La cima io a inizio carriera me la immaginavo che fosse avere l’onore di giocare qualche partita in serie A. Poi ho alzato l’asticella, ponendomi quale obiettivo la convocazione in Nazionale. L’ho spostata sempre più su. Mai, però, avrei immaginato di spostarla tanto in alto».
Da giocatore ad allenatore, un passaggio non immediato, nel percorso di Fabio Grosso. Ispirato magari da Marcello Lippi, il Ct di quell’Italia campione? «Dopo il calcio giocato ho staccato per un po’. Mi sono goduto un po’ di libertà, la mia famiglia, i miei bambini, qualche hobby. Poi il fuoco ha ricominciato ad ardere, la passione è tornata. Ho fatto un mix di tutte le esperienze che avevo vissuto, e ci aggiunto qualcosa di mio, come è giusto che sia. Ciascuno deve saper portare qualcosa di proprio. Fare bene quello che già fanno gli altri non giova. Anche perché gli altri lo fanno bene perché è roba loro. Se non hai qualcosa di tuo da proporre, diventa complicato farsi strada. Ho fatto quattro anni con i ragazzi (Juventus Primavera, ndr), poi mi sono messo in discussione nel calcio dei grandi, e sto continuando a fare quello che mi piace fare. È la cosa più importante».
Quanto è difficile farlo nella realtà italiana, così particolare? «Non è che sia difficile. Lo è per chi non ha le idee chiare e continua a cambiare progetto, e quindi allenatore. Se in una stagione si cambiano tre o più tecnici, significa che alla base non c’è programmazione. E questo rende molto complicato il raggiungimento degli obiettivi prefissati. Quando mi chiamano, io faccio il mio lavoro con passione, sapendo di avere le basi per poterlo fare bene. Serve tempo, però. Quando mi è stato concesso, sono sempre stato contento del risultato finale. Quando invece non me ne è stato dato, tutto è diventato più difficile. Sono innamorato di questo lavoro, sono convinto di farlo bene».
Ogni allenatore ha un modo di porsi, un profilo. Qual è il suo? «Nel calcio c’è una parola magica che si può sempre sfoderare: “dipende”. Dipende dal contesto, dai momenti. Ma un principio c’è, al quale mi attengo: sono sempre me stesso. So essere all’occorrenza accomodante o duro, quando serve. Mi piace fare progredire i ragazzi che ho a disposizione. Che siano giovani o meno giovani non cambia, poiché tutti possono sempre migliorare».
La palla al piede ancora ce l’ha, a volte? «Se partecipo attivamente agli allenamenti abbasso il livello (ride di gusto, ndr). Gli anni passano per tutti. Siccome a me piace alzare il livello e l’intensità degli allenamenti, non è il caso che io partecipi». E lo dice un campione del mondo con quel sinistro lì...
Il suo percorso l’ha portato in Svizzera, a Sion. Una dimensione nuova, molto diversa da quella italiana. In cui non è la continuità data al progetto tecnico a risultare marcante. È un eufemismo, se il riferimento è Constantin… «Potrebbe sembrare un’idea avventata, o apparire complicato, ma a me non piace l'apparenza, bensì la sostanza. Io sono sul campo, mi diverto. Mi piace costruire con i ragazzi che ho a disposizione una mentalità comune, perseguire obiettivi condivisi. Confidando di avere il tempo per farlo. Ma quello del tempo non è un problema che mi pongo».
Come valuta l’impatto con la nuova dimensione della Super League? «Sono soddisfatto, mi piace quello che vedo, ci sono tanti giovani che hanno la possibilità di trovare spazio. Mi piace quello che sto facendo, e come lo stiamo facendo. Mi piace confrontarmi con una mentalità diversa. Sono contento di queste prime settimane trascorse nel calcio svizzero».
E arriviamo al Lugano. «Per lei questa è l’ultima domanda, e lo capisco. Ma io invertirei l'ordine dell'intervista (ride, ndr). Di tutto quello di cui abbiamo parlato finora, a me in questo momento interessa poco. Sono concentratissimo sulla nostra prossima partita, dobbiamo ottenerne qualcosa di positivo. Ci proveremo con tutte le nostre armi. Il Lugano è una squadra solida, ben presente, che viaggia sulle ali dell’entusiasmo. Ogni incontro nasconde delle difficoltà, ma noi vogliamo dare continuità al nostro percorso. In classifica non abbiamo ancora tanti punti, ma il calendario non ci ha assistito (sconfitta 1-0 a San Gallo, 0-0 contro l'Yb, ndr). Non che ora sia facile, al contrario, ma abbiamo la possibilità di fare punti, abbiamo le qualità per farlo, abbiamo lavorato bene per poterci riuscire».