Il celebre arrampicatore, che fra pochi giorni terrà una serata al Palazzo dei Congressi di Lugano, ci parla delle sue battaglie e dei suoi progetti
L’altoatesino Reinhold Messner, fra i più grandi alpinisti viventi e certamente il più conosciuto a livello planetario grazie ai suoi record e alle sue innumerevoli imprese, sarà al Palacongressi di Lugano il 12 maggio, alle 20, con uno spettacolo che si chiama ‘Nanga Parbat, la mia montagna del destino’.
Come mai questo titolo?
Il Nanga Parbat mi ha dato tutte le possibili esperienze che si possono vivere in montagna, e fra l’altro c’è stato un periodo – negli anni Venti e Trenta del Novecento – che veniva chiamato proprio così: montagna del destino. Erano i tempi in cui si andava a conquistare ogni possibile cima, era una vera rincorsa internazionale. Personalmente, è una vetta che ha un posto speciale nella mia memoria e nel mio cuore. Lassù, infatti, nel 1970 persi mio fratello Günther nel corso della nostra prima spedizione in Himalaya, e fu naturalmente un’esperienza molto drammatica.
Dopo quella tragedia qualcuno la rimproverò di non aver fatto tutto il possibile per salvare suo fratello: come si vive con il peso di accuse simili?
Alcuni mi accusano ancora oggi. Ma il peso per quella morte ci sarebbe lo stesso, anche se non ci fossero queste accuse, perché il senso di responsabilità rimane per sempre. Posso dire soltanto che io sono partito da solo per quell’ascensione, e mio fratello ha deciso in autonomia di seguirmi. A un certo punto però siamo stati costretti a scendere, perché lui ha iniziato a soffrire di mal di montagna. E fu una discesa drammatica, sempre fra la vita e la morte. Riuscimmo a scendere fino alla base della parete, dove ci aspettava ancora una lunga strada fra ghiacciai e crepacci. E poi, mentre io ero andato un po’ avanti in cerca di una via d’uscita da quell’inferno, Günther fu travolto da una valanga. Eravamo a 8mila metri di quota, costretti a scendere lungo un versante che vedevamo per la prima volta. La montagna non era mai stata scalata per quella via, nessuno l’aveva mai descritta, dunque muoversi era davvero difficile. Quando scendi da una simile muraglia di ghiaccio e roccia, non vedi nulla davanti a te, indovini soltanto l’abisso sotto di te, e non sai se, per uscirne, devi andare a destra o a sinistra.
E tornare sul Nanga Parbat che tipo di esperienza è stata?
La prima volta ci tornai per cercare il corpo di mio fratello. Poi ci andai per fare una salita in solitaria, probabilmente la migliore ascesa di tutta la mia vita. E poi ci tornai di nuovo per tentare di salire lungo una parete che, ancora oggi, nessuno ha mai domato: non è troppo difficile, ma anche noi abbiamo fallito. Da un po’ di tempo, invece, ci torno regolarmente per andare a vedere come procedono i lavori dei progetti che ho messo in piedi in quella regione. Laggiù ho costruito quattro scuole affinché i bambini delle valli, quando dovranno lasciare la montagna e scendere in città, possano avere una vita più dignitosa. Lassù non c’è abbastanza cibo per tutti, e dunque molti sono costretti a scendere. Ma per sopravvivere in città è indispensabile saper leggere e scrivere: te la cavi solo se hai delle conoscenze. Il problema è che lo Stato non è disposto a pagare la costruzione di una scuola e lo stipendio di un maestro in un posto sperduto a 4mila metri di quota. E così cerco di dare il mio aiuto.
Considerando tutte le sue spedizioni, lei ha vissuto almeno una decina d’anni a contatto delle popolazioni di montagna in tutto il mondo. Che relazione ha con queste genti? Si sente in qualche modo in debito verso di loro?
È proprio così, io restituisco ciò che loro mi hanno dato. Nel 1970, sul Nanga Parbat mi hanno salvato la vita, e proprio lì ho voluto costruire la mia prima scuola. E poi, grazie alla costituzione di una piccola fondazione, ho potuto proseguire e aiutare le altre 4-5 vallate attorno al Nanga Parbat, quelle che salgono dal fiume Indo verso le malghe situate subito sotto i ghiacciai. Nel corso dell’ultimo anno, sono anche riuscito ad aprire un museo sugli Sherpa a 4mila metri, sotto l’Everest, da dove si vedono tutte le maggiori cime himalayane. Ma non si tratta di un museo sull’importanza imprescindibile che gli Sherpa hanno avuto per l’alpinismo, bensì su di loro come popolazione, che è composta da 40mila persone. Cinquecento anni fa si spostarono dal Tibet, superando le montagne, verso l’odierno Nepal. Si tratta di una storia grandiosa e che ricorda un po’ quella dei Walser, fra la Svizzera e l’Italia. Ho però conosciuto e studiato anche i popoli di montagna dell’Africa e del Sudamerica, e anche lì riesco a dare il mio aiuto, fornendo conoscenze e finanziando piani di studi. Vorrei però ripetere l’esperienza del museo anche in Perù, malgrado io abbia ormai 80 anni, con tutto ciò che ne deriva.
Oggi ci si pongono molte questioni sul turismo di montagna, sul suo ruolo e su come andrebbe riorganizzato: qual è la sua idea a proposito?
La gente sta cominciando a capire che, se vogliamo continuare a fare turismo di montagna, dobbiamo dare qualcosa in cambio alla gente che sulle montagne ci vive. Non possiamo limitarci a costruire un bell’albergo, con cucina d’alto livello: dobbiamo iniziare a dare anche la nostra vera attenzione verso i luoghi e la gente che ci vive, e questo è un fatto culturale, non certo sportivo. Salire su una montagna, anche senza essere un forte alpinista, significa prendere misura della propria natura – quella che sta dentro di noi – in relazione a quella che sta invece attorno a noi. Io mi impegno per dare al Sud Tirolo un ruolo di leadership nel turismo di montagna, e vorrei che fossimo in grado di dare ai nostri ospiti più di quanto abbiamo dato loro fin qui. Dobbiamo dare la possibilità di salire davvero sulle montagne, alla velocità del camminatore e non a quella dell’elicottero, e di poterle davvero toccare, che è l’unico modo per capirle, amarle e tutelarle. E la tutela non si fa certo vietando le vacanze in montagna, come qualcuno vorrebbe fare. Oggi si parla molto di overtourism, che è una realtà al massimo in 5-6 luoghi dell’intero arco alpino, mentre tutte le altre zone hanno invece troppo poco turismo, il che impoverisce le valli, che faticano a vivere della sola agricoltura di montagna. I contadini di montagna però meritano il massimo rispetto, perché è solo grazie al loro lavoro nel corso dei secoli se le montagne sono state fin qui tutelate a livello di suolo, biodiversità ecc.
Lei ha sempre avuto una certa sensibilità verso la protezione dell’ambiente, anche quando nessuno ancora se ne preoccupava. Oggi invece tutti parlano di queste tematiche, ma l’impressione è che in realtà spesso si tratti solo di chiacchiere: condivide?
C’è molto da fare, in effetti. Pensiamo ad esempio al lupo, che è ritornato sulle nostre montagne, e lo ha fatto a grande velocità, diventando un grande problema. Tutti ovviamente si aspettano che io mi batta per il lupo, affinché non venga toccato. Ma questa gente non sa che, se non si fa qualcosa contro il lupo – e si lascia che i branchi crescano senza limiti – l’agricoltura di montagna certamente scomparirà, perché i lupi uccidono centinaia di pecore e capre, e per i contadini sta diventando dura. Hanno troppe perdite, e abbandonano gli alpeggi. Se tutti i contadini faranno così, il degrado dei terreni sarà enorme e inevitabile: la bellezza e il buono stato di certe zone sono infatti garantiti solo dal lavoro, manuale e duro, degli agricoltori, che sono i veri tutori dell’ambiente montano, specie quello fra i 1’500 e i 2’200 metri di quota, dove c’è vita e grande biodiversità.
Le città sono piene di cosiddetti ambientalisti che però della natura conoscono poco o nulla, e che credono ad esempio che tutti i problemi del mondo si risolverebbero abolendo la caccia, senza sapere che la caccia stessa è innanzitutto una forma di tutela ambientale…
Già, e purtroppo si contano a milioni, mentre i contadini di montagna – così come i cacciatori – sono poche decina di migliaia, e dunque è inevitabile che, nel sistema democratico, finiscano per perderci nella discussione. E i politici purtroppo mirano ai voti della maggioranza, che sta nei cosiddetti animalisti e non certo fra i contadini. Ma quelli che davvero finora hanno garantito la biodiversità sono proprio gli agricoltori, anche tenendo controllato il numero degli animali predatori o dannosi.
In autunno uscirà il suo nuovo libro, dal titolo molto significativo, ‘Gegenwind’, cioè controvento: di cosa si tratta?
In questi cinquant’anni, ho scritto diversi libri. All’inizio, erano soprattutto diari delle mie spedizioni, in cui tentavo di raccontare la mia storia. E oggi sono del tutto sicuro che l’alpinismo tradizionale sia la somma della narrativa e dell’attività stessa: non c’è infatti attività sportiva che abbia una dimensione narrativa così consistente come l’alpinismo. Nessun altro sport possiede una letteratura così vasta: esistono oltre 10mila volumi che raccontano ciò che noi abbiamo fatto. Il nostro sport si svolge lontano dalle arene, è un’attività basata sulla solitudine, e dunque mettere per iscritto le nostre storie diventa fondamentale, se vogliamo comunicare le emozioni di questa attività. Il racconto è sempre stato parte della cultura umana, fin dai tempi più remoti, quando attorno al fuoco si raccontava com’era andata la caccia, e il messaggio era fondamentale per le generazioni successive. Il prossimo libro spero farà capire che la mia vita è stata un continuo affrontare ostacoli, attriti e sfide. Una parete dolomitica è un ostacolo che viene superato, ma io ho dovuto affrontare ben altri ostacoli nella vita: tutto ciò che ho fatto è stato molto criticato. Mi hanno dato la colpa per la morte di mio fratello. Per dieci anni il mio progetto di museo a Bolzano è stato in tutti i modi osteggiato, dalla politica e dalla stampa. In certi momenti ho ricevuto migliaia di lettere contro di me e le mie idee. E anche quando volevo salire sull’Everest senza ossigeno, la maggioranza dei medici mi ha preso per un pazzo senza morale e assicuravano che sarei morto. Una vita sempre controvento, insomma. Ma dover lottare mi è servito a diventare più forte e a far tesoro di ogni esperienza, perché ricordatevi che, se si vuole volare, bisogna esser capaci di andare controvento: col vento in poppa, infatti, decollare è impossibile.