Il 10 marzo 2003 moriva uno dei più grandi piloti della storia, certo spericolato però attento a ciò che poteva migliorare la sicurezza sui tracciati
Ogni volta che si infilava sotto un metal detector, intervenivano le teste di cuoio a isolare l’intero aeroporto. I chirurghi ortopedici gli avevano messo in corpo così tanta ferraglia che, fondendola, avrebbe potuto ricavarne un sidecar.
Barry Sheene, fra le icone di quella meravigliosa gabbia di matti che era lo sport motoristico degli anni Settanta, per un tumore veniva stroncato vent’anni fa dalla Falce che durante la sua carriera di pilota era riuscita, a più riprese, soltanto a sfiorarlo.
Non aveva ancora compiuto 53 anni, e pochi giorni dopo la sua morte Valentino Rossi, che lo ammirava, lo omaggiò sventolando una bandiera col numero 7 durante il giro d’onore dopo aver vinto una corsa a Phillip Island.
Ironico, intelligente, eccessivo e fuori dal coro, l’inglese aveva dominato la classe regina del Motomondiale – 19 successi e 2 titoli iridati – nel periodo intercorso fra l’egemonia di Giacomo Agostini e l’affermarsi di un fenomeno come Kenny Roberts.
Con l’irrinunciabile sigaretta
Cresciuto nel sobborgo londinese di Holborn, dal padre meccanico ricevette la passione per le due ruote, per la miscela fatta in casa e un’infinità di moto di piccola cilindrata messe insieme con grande abilità. Raggiunse i grandi palcoscenici diciannovenne, e al secondo anno già firmava quattro vittorie nel Motomondiale – su Suzuki e Kraidler – fra classe 50 e 125. Nel 1974 Barry passò alla 500 e la stagione seguente ad Assen, davanti a qualcosa come duecentomila spettatori, colse la sua prima vittoria nella classe regina. Lo fece transitando sotto la bandiera a scacchi perfettamente appaiato ad Agostini: il tempo assegnato fu identico per entrambi, ma il fotofinish decretò vincitore Sheene.
Conquistò il Mondiale nel ’76 (5 successi in 12 gare) e fece il bis la stagione successiva (6 vittorie in 14 Gp), regalando per la prima volta il titolo maggiore alla Suzuki, di cui fu la prima autentica leggenda. Quando gli dissero che, da iridato, avrebbe avuto l’onore di gareggiare col numero 1, snobbò le mostrine e si tenne stretto il suo amato 7: mai nessuno, prima di lui, aveva rinunciato a sfoggiare la cifra del prestigio.
Poliglotta e compagnone, per troppa smania e incalcolabile generosità, gli capitò spesso di gettare alle ortiche gare che parevano già vinte. Sposato a una donna che faceva notizia quanto lui, si presentava sui circuiti a bordo di un elicottero – mille anni fa – o su una Rolls Royce con targa personalizzata (BS 7), precedendo nell’esercizio Cristiano Ronaldo di almeno un trentennio. E per coerenza, viveva in un castello dove, si dice, era però facile per chiunque passare a trovarlo e farci due chiacchiere. Amico e ammiratore (ricambiato) dei Beatles, col connazionale James Hunt – campione mondiale della Formula 1 in quegli stessi anni – agli occhi dell’opinione pubblica formava una straordinaria coppia anticonformista che perfettamente incarnava lo spirito dell’epoca.
In anticipo su tutti, Barry destò stupore per le sue tute bianche o colorate, in mezzo al nero vestito come fosse un obbligo da tutti gli altri piloti. Magnetico e fotogenico oltre che fenomenale in sella, riusciva a strappare contratti con scuderie, sponsor e organizzatori di gare perfino superiori a quelli che otteneva Sua maestà Giacomo Agostini.
Ma nessuno lo odiava per questo: personaggi come lui facevano infatti un gran bene – di sponda – a tutto il movimento. Benché in pista – dopo un bel sorpasso o un numero acrobatico – non disdegnasse il dileggio nei confronti dei malcapitati avversari, era comunque apprezzato dai suoi colleghi, che difendeva con unghie e denti quando – sindacalista ante litteram – c’erano da appianare divergenze coi padroni del vapore del Motomondiale.
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Assen 1976, un grande trionfo
Abbonato a cadute e incidenti, Barry Sheene fu certamente il paziente più assiduo del Dottor Costa, storico medico del Circus a due ruote. A differenza della maggior parte dei suoi contemporanei, però, alla pelle ci teneva eccome, tant’è che, ritenendolo nient’altro che una roulette russa, si schierò apertamente contro il Tourist Trophy dell’Isola di Man, al quale prese parte in una sola occasione: oltre a dispensare a suo dire ingaggi e premi ridicoli, era una gara davvero troppo pericolosa. L’inglese fu inoltre tra i primi a usare caschi integrali e – artigianalmente – a studiare e realizzare visiere che assorbissero meglio l’impatto nel caso di ruzzoloni. Senza dimenticare il contributo che Barry diede nello sviluppo del paraschiena. Accorgimenti che, ad ogni modo, non lo mettevano del tutto al riparo dagli infortuni.
A Daytona, una volta, per lo scoppio della gomma posteriore della sua Suzuki 750, fu vittima di un volo da cui uscì con quasi tutte le ossa frantumate, mentre sull’asfalto del Paul Ricard lasciò un intero mignolo. A Silverstone, in prova, fece scempio invece di entrambe le proprie gambe, che furono ricomposte solo con l’ausilio di ben 27 viti: la moto del francese Patrick Igoa – appena scontratosi con un rivale – era rimasta in mezzo al tracciato proprio dietro un dosso e Sheene, che non poteva vederla, vi si schiantò con la sua Yamaha alla velocità di un Boeing.
I medici – che temevano potesse penare perfino a tornare a camminare – non credettero ai loro occhi vedendolo rimontare in sella in tempi record e a disputare un altro paio di stagioni mondiali, fino al 1984, quando lasciò il professionismo e si trasferì in Australia, convinto che il caldo potesse giovare alle sue ossa ormai bioniche.
Trascorse gli ultimi anni commentando in Tv il Motomondiale e sfidando in gare d’esibizione altre vecchie glorie di un motociclismo spesso tragico e oggi ritenuto diseducativo, ma innegabilmente ammantato di un fascino che quello odierno nemmeno potrebbe sognare di emanare. Barry e i suoi colleghi, per dire, tiravano l’ultima boccata di nicotina un minuto prima di lanciarsi a corsa verso la propria moto, come si faceva ai tempi delle partenze a spinta.
Il mito narra che Sheene, addirittura, avesse forato il suo famoso casco con l’effige di Paperino all’altezza del paramento per poter fumare anche con l’elmetto già calato sulla sua testa dalla zazzera fluente, spostando ancora un po’ più in là il momento di gettare a terra la cicca della sua fedele Gauloises.
In realtà, il buco serviva per infilarci una cannuccia flessibile collegata a una borraccia fissata alla bell’e meglio sul contagiri. Leggenda, dunque, ma poco importa: tutti infatti ci abbiamo bonariamente creduto, perché una cosa del genere, da uno come lui, ce la saremmo benissimo potuta aspettare. Se poi in gara, invece di succhiare acqua sorbiva sorsetti di scotch, non ci è dato sapere.