La più profonda crisi di risultati nella storia della nazionale neozelandese è figlia di motivi di varia natura
Don’t cry for me Argentina. Non piangere per me Argentina, dicevano sabato a Christchurch i tifosi degli All Blacks, increduli davanti alla sconfitta degli (ormai poco) Invincibili contro i Pumas. E invece in Argentina si piangeva, eccome. Di gioia, di commozione, per la prima storica vittoria della nazionale albiceleste in Nuova Zelanda, al cospetto della squadra di rugby più forte e più famosa del mondo. Gli All Blacks sono considerati una delle cinque formazioni sportive più iconiche in assoluto, insieme alla nazionale brasiliana di calcio, ai Chicago Bulls (basket), ai Dallas Cowboys (football americano) e ai New York Yankees (baseball). Piangevano, è ovvio, anche i tifosi neozelandesi: loro sono alle prese con l’anno più nero dei Tuttineri. Due vittorie nelle ultime otto partite per gli All Blacks rappresentano una catastrofe che non ha riscontro nei tempi recenti. Laurie Mains che guidò la nazionale neozelandese di rugby dal 1992 al 1995, lasciò la squadra col bilancio più basso degli ultimi trent’anni, 23 vittorie in 34 partite, una statistica che la gran parte delle altre squadre possono solo sognare. Nessun allenatore francese ha mai vinto più del 65% delle partite affrontate sulla panchina dei Coqs e solo Clive Woodward ha portato l’Inghilterra, tra il 1997 e il 2004, al 70% di vittorie. Negli ultimi vent’anni, gli All Blacks si erano attestati ben sopra l’80%, il picco con l’ex poliziotto Steve Hansen come coach: 93 vittorie in 107 partite, una sconfitta ogni undici match. Tra l’agosto 2015 e il novembre 2018, 18 successi consecutivi. I record della formazione con la felce sul petto non si contano: il più eclatante, 509 settimane e sei giorni in testa al ranking mondiale, dal novembre 2009 all’agosto 2019, nemmeno il miglior Federer (310 settimane, secondo dietro a Djokovic, 373) si è avvicinato a quei numeri. Tutti questi risultati, lo scorso mese di giugno, hanno dato anche un valore economico al rugby neozelandese nel suo assieme: due miliardi e mezzo di dollari, secondo la valutazione del fondo di investimento americano Silver Lake diventato partner commerciale della federazione ovale della Nuova Zelanda.
Solo che, dallo scorso novembre, gli All Blacks non vincono più, o molto poco: due sconfitte in autunno, a Dublino contro l’Irlanda e a Parigi contro la Francia. Poi la catastrofe di luglio, di nuovo contro l’Irlanda, capace di vincere 2-1 la serie di tre partite disputate nella Terra della lunga nuvola bianca, come i Maori chiamavano la Nuova Zelanda. Era dal 1994 che i Tuttineri non subivano due sconfitte in casa contro una formazione europea, allora fu la Francia. Più di recente: la batosta di Nelspruit contro il Sudafrica, 10-26, nel primo turno del Rugby Championship, seguita da un breve riscatto a Johannesburg, sempre contro gli Springbok, prima del nuovo tonfo contro i Pumas, la sesta nazionale nella storia capace di vincere in Nuova Zelanda. I tifosi chiedono la testa dell’allenatore Ian Foster, il quale dopo le sconfitte con l’Irlanda aveva sostituito i suoi assistenti in un implicito scarico di colpe, invece di assumere le proprie. Ma al di là degli eventuali errori tattici e degli occasionali rimbalzi imprevedibili della palla ovale, i tifosi degli All Blacks cominciano a temere che le radici del malessere della squadra siano più profonde e vengano da più lontano. Il Covid, certo, (chi non dà la colpa al Covid di questi tempi?). La pandemia ha costretto il rugby neozelandese a un lungo isolamento, soprattutto a livello di club, durato per tutto il 2020 e 2021. In questo periodo, le cinque franchigie che alimentano gli All Blacks (Blues, Crusaders, Chiefs, Highlanders e Hurricanes) hanno giocato esclusivamente tra di loro, per evitare contatti con il mondo esterno, dando vita al Super Rugby Aotearoa. Ne è scaturita una manifestazione di grande impatto spettacolare, apprezzata dagli appassionati di tutto il pianeta e che ha illuso molti che quel rugby – basato su straordinarie qualità individuali, estro, talento e inventiva – potesse essere anche la ricetta per continuare a trionfare in campo internazionale.
Il ritorno alla normalità, invece, ha messo gli All Blacks davanti all’amara realtà: di fronte a difese molto ben organizzate (Sudafrica, Irlanda, ma anche Argentina), al cospetto di rivali che durante il lockdown hanno messo su muscoli e potenza da far paura privilegiando la palestra al rischio di contatto nel gioco collettivo, la tecnica individuale diventa sterile e non produce vittorie. A forza di specchiarsi nella propria bravura, insomma, i neozelandesi non si sono accorti, come accadde al cervo di Fedro, che nel folto di quel contesto feroce che è la foresta stregata del rugby internazionale, il bel palco di corna che rappresentava motivo di vanto nella radura in battaglia dà più problemi che soddisfazioni, non aiuta a vincere e impone un cambio di strategia se si vuole tornare a battere i migliori. Il problema è che, nel frattempo, seguendo i dettami rigidi del professionismo sportivo, anche il rugby neozelandese ha cominciato ad accorpare le sue forze migliori, nelle scuole, nelle franchigie, nei club più prestigiosi, perdendo gran parte di quelle specificità provinciali (Taranaki, Waikato, Otago, Canterbury, per citare solo le più famose) che costituivano altrettante scuole ovali e fornivano ciascuna, nell’emergenza, una potenziale risposta diversa davanti alle difficoltà e alle sfide degli avversari. Da questo mix di approcci diversi al gioco del rugby nasceva la grande leggenda All Black. Adesso che gli standard sono diventati (quasi) tutti uguali, con poco confronto fra teorie e pratiche diverse, cambiare impostazioni e tattica nel momento di crisi diventa difficile ma essenziale. Il Sudafrica sta traendo immenso vantaggio dal confronto permanente delle sue squadre migliori (Sharks, Stormers, Bulls e Lions) con il rugby europeo, e dalla loro partecipazione nello United Rugby Championship, torneo a cui partecipano le squadre irlandesi, gallesi, scozzesi e le due italiane, Zebre e Benetton Treviso.
Insomma, la commistione aiuta, così come il meticciato produce campioni, basti pensare a Marcell Jacobs e alle sorelle Kambundji nell’atletica. Il rugby sudafricano, dopo i lunghi anni dell’apartheid, sposa a meraviglia le qualità atletiche dei suoi giocatori neri, di origine africana, con la durezza degli afrikaners, discendenti delle prime migrazioni europee, olandesi, francesi e inglesi. La stessa Francia, che ospiterà i prossimi Mondiali, si avvale di numerosi giocatori nati e cresciuti nelle colonie, il trequarti centro Moefana e il tallonatore Mauvaka vengono addirittura da Wallis e Futuna e Nuova Caledonia, i territori d’Oltremare più distanti che ci siano. Il rugby neozelandese per anni si è nutrito di robuste iniezioni isolane, tongani, samoani, figiani. Tutte realtà dove il rugby è di grande tradizione: combattimento, fisicità, fantasia. Non a caso le Fiji hanno vinto la medaglia d’oro nel rugby (Seven) maschile sia alle Olimpiadi di Tokyo che a quelle di Rio. Ma in un Paese di soli 5 milioni di abitanti come la Nuova Zelanda l’equilibrio è precario. Attratti dalle borse di studio delle scuole più prestigiose di Rotorua, di Wellington, di Auckland i ragazzi delle isole del Pacifico hanno trovato nel rugby uno strumento importante d’identità e un mezzo d’integrazione sociale. La loro enorme prestanza fisica ha permesso loro di imporsi fin dalle categorie giovanile e davanti a questo strapotere molti giovani pakeha, gli eredi della migrazione anglosassone, hanno cominciato a preferire il calcio al rugby (ricordate il pareggio della Nuova Zelanda con l’Italia ai Mondiali di calcio del 2010 in Sudafrica?).
Morale: il rugby anche nel regno di Aotearoa è diventato più "pacifico" (nel senso di oceano) che bianco. I poderosi "farmer" di origine europea, figli dei primi immigrati scozzesi, irlandesi, britannici, pian piano sono stati sostituiti nelle formazioni dei club, nelle franchigie e infine in nazionale dai fantasiosi interpreti di un rugby più spensierato, meno rigoroso, più individuale che collettivo. Insomma, la Nuova Zelanda ha perso nel tempo una parte di quel rigore contadino, occidentale, europeo che ne faceva una delle culle della tradizione ovale. In termini calcistici è come dire Brasile (che non vince i Mondiali dal 2002) contro Germania, attacco contro difesa, che tanta parte conta ormai nel rugby moderno: il Sudafrica vincitore dell’ultima Coppa del Mondo ne è diventato il nume tutelare.
Può essere che già dal prossimo weekend gli All Blacks ripristinino una parte del loro dominio. Ma per tornare a essere gli incontrastati numero uno probabilmente ci vorrà più tempo, con la giusta capacità di dosare risorse ambientali, storiche, atletiche e sportive. La Francia del calcio, nel 2018, è diventata campione del mondo in Russia con i vari Pogba, Mbappè, Kantè, ma anche con Griezmann, Giroud e Pavard. Può darsi che questo mix di culture diverse nel 2023 le permetta di fare il bis anche nel rugby. Il 2019 ha visto il trionfo della Rainbow Nation sudafricana. La Nuova Zelanda cerca la sua identità tra passato, presente e futuro. Mentre il fondo Silver Lake aspetta grandi ritorni dal suo investimento milionario, in un angolo della Terra dove il rugby è ancora religione.