Pugilato

Il riscatto passa dal quadrato

Campione svizzero a fine novembre a Locarno, Tiago Pugno racconta la svolta della sua vita

27 dicembre 2018
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Tiago Pugno ha una carriera da affrontare, e un profilo sportivo da raccontare. Ma, soprattutto, ha uno spaccato di vita che facile da raccontare non è, perché contiene episodi di violenza giovanile, con strascichi nella giustizia penale. Esperienze toste, intime, che segnano. La cui condivisione non può essere banale.

È pur vero che la sua storia potrebbe essere confusa con la sceneggiatura di un film di seconda categoria basato sull’eroe che sbanda pericolosamente, svolta e infine si riscatta, ma nel percorso umano di un giovane che con il pugilato (e con la vita) ha deciso di fare sul serio, non c’è nulla di inventato. Né di retorico. «In casi come il mio – racconta Tiago – si tende a parlare di cattive compagnie. In realtà, ho attraversato un periodo in cui non sapevo bene cosa volevo, ero in lotta soprattutto con me stesso. La compagnia incide, sì, ma principalmente il problema ero io. Non addosso colpe particolari agli altri, la responsabilità delle mie azioni era soprattutto mia. Cominciai a 16/17 anni, fino ai 22, tre anni fa. Parte della mia aggressività è riconducibile all’adozione. I miei genitori mi sono sempre stati vicini, sono stati affettuosi, mi hanno supportato. Dentro di me, però, qualcosa mi è sempre mancato, lo sento ancora oggi. L’incertezza, non sapere bene chi sei... Sensazioni che mi hanno causato un po’ di irrequietezza. Il rapporto con i miei genitori adottivi è tuttora molto buono. Padre e madre naturali, invece, non li conosco. Ho avuto la possibilità di avvicinarli, in Brasile, ma ho preferito non farlo. La facevo un po’ più facile di quanto invece non fosse: vado giù, li incontro, li conosco... Ma non è così semplice».

La svolta coincide con un episodio preciso.

La sveglia me l’hanno data le autorità, nel giorno in cui mi sono ritrovato in stato di fermo. Sono stato posto di fronte a un ultimatum, a un bivio. Le strade da imboccare erano due: o finisci in galera, o ti tiri fuori. Ho trascorso una giornata in gattabuia, e in quelle ore mi sono chiesto cosa volessi fare della mia vita. Se fosse quello, il tipo di vita che volevo, o se invece non fosse il caso di tirarmi fuori e dimostrare che come persona valgo di più, e che come sportivo posso ottenere qualcosa di importante. Da solo, chiuso in una stanza molto piccola, mi sono guardato dentro e ho deciso di rimboccarmi le maniche per fare capire che valgo di più, che sono di più.

Qualcosa è scattato in testa.

All’inizio ci ho messo un po’ a capire la gravità della situazione in cui mi ero cacciato. Le cose che facevo in giro, le consideravo delle bravate, non le ritenevo così gravi. Tra ragazzi si litigava, niente di particolarmente grave (attimo di riflessione, ndr). O meglio, grave sì, ma non è mai successo niente di così irreparabile. Quando sono finito dentro, mi sono svegliato. Ho smesso di dare la colpa agli altri, al mondo, come a volte i giovani sono soliti fare, per comodità. Mi sono detto che il problema non erano gli altri, bensì io. Mi sono rimboccato le maniche, ho lasciato perdere tutto quello che prima occupava il mio tempo senza restituirmi nulla in cambio. Ho detto agli amici che avrei preso un po’ le distanze, spiegando loro che avevo voglia di dimostrare di essere una persona migliore di quella che erano abituati a frequentare, per finalmente fare in modo che la gente potesse parlare di me in termini positivi, dopo tanta negatività.

Lo sport può essere d’aiuto.

So che con lo sport posso rappresentare tutti quelli che credono in me, e voglio esserne degno. Molti mi scrivono, leggono dei miei risultati, mi fanno i complimenti per il cambiamento che ho fatto. Tanti di loro, sono gli stessi con cui in passato avevo delle discussioni. Un messaggio che ho ricevuto diceva: “Sono contento di vedere che stai investendo forze ed energie in qualcosa di veramente bello. Sono contento che sia tu a rappresentarci quando partecipi a tornei internazionali”. Mi ha fatto molto piacere. La gente sta cambiando opinione su di me. Voglio lavorare affinché capisca che sono una persona diversa, uno sportivo vero, che fa le cose sul serio.

È cambiato anche il modo di combattere?

Pugilisticamente ero testardo e presuntuoso. Non ascoltavo, ero convinto di sapere già tutto. Quando l’asticella si è alzata, ho capito che la mia presunzione non portava a nulla. Sono cambiato dal punto di vista emotivo e psicologico, e questo ha comportato anche la svolta sul piano fisico e tecnico. Ho iniziato a costruire la casa, mattone dopo mattone. Sento di essere già arrivato a buon punto, ma so di poter fare di più, e voglio farlo. Se penso alla persona che ero, sono sempre più convinto che la strada imboccata sia quella giusta, e continuerò a lavorare in questa direzione.

Tiago è seguito da un team di collaboratori.

Sì, siamo il ‘team Pugno’. Essendo pugile, ci chiamiamo così, ma senza prenderci troppo sul serio. L’apporto delle persone che mi seguono è però fondamentale. Il mio contributo a una mia vittoria lo quantifico con il 10 per cento. Il resto è merito di chi mi accompagna (Albano Dazzi, che gestisce la palestra EverFit di Sant’Antonino, Giovanni Laus, allenatore, Andry Menin, preparatore tecnico, Antonio Liucci, preparatore atletico anche di alcuni calciatori di Super League, tra i quali i ticinesi Djuric dello Xamax e Marchesano dello Zurigo). Se sul ring so esattamente cosa devo fare, è perché l’abbiamo fatto e rifatto in allenamento. Tutti loro conoscono bene la mia storia. Laus non si capacitava del fatto che sprecassi il mio talento. In me ha sempre visto una persona con delle qualità, intelligente, con un potenziale umano, con cui è gradevole parlare. Fino al momento della “rinascita” non me ne rendevo conto. “O cambi, o sei fuori”: me lo sono sentito ripetere anche da loro.

Il monito ha sortito l’effetto desiderato

So cosa devo fare, so come migliorare. So che per progredire mi devo fidare di loro. Ho messo da parte le uscite con gli amici, anche quelle più innocenti, per semplicemente bere qualcosa, perché non mi davano nulla. E anche perché vi era il rischio che non fossi io stesso in grado di gestire la serata o il nervosismo, anche di altre persone. Mi sono detto: rimango a casa, ritrovo me stesso, e mi concentro su quello che è diventato il mio vero obiettivo. Mi alzo presto al mattino, vado a correre, conduco una vita regolare. In quel momento stava nascendo mio figlio. Si poneva anche la questione di quale esempio volessi dargli, di quale persona volessi essere. Avevo più ore per allenarmi, più energie, più forza. Ho curato aspetti determinanti quali le ore di sonno, l’alimentazione. È stato un cambiamento radicale, anche psicologico. Sento di non aver più bisogno delle cose che facevo prima. Non sono recluso in casa, ma se esco lo faccio con testa, e rientro presto. Frequento gli stessi locali di prima, ma è bello notare il diverso atteggiamento delle persone nei miei confronti: erano chiusi, prevenuti, ora invece mi accolgono, si interessano ai miei risultati.

Antonio Liucci, figura chiave.

Lavoravo con lui già in passato. Mi ha dato una mano a trovare lavoro, sono nello staff della sua palestra (Tiago segue la scuola di istruttore fitness a Lugano, ndr). Gli ho detto di volermi giocare tutto, di avere tanto da dare. Ha sempre creduto in me. Mi è venuto incontro e mi sta ancora oggi dando una grossa mano. A patto, però, che faccia le cose sul serio («Altrimenti è fuori», ha confermato Antonio. Per me è un po’ di tutto: certamente è un grande amico. Ci sentiamo più volte al giorno, mi sa capire, riesce anche a cogliere eventuali difficoltà di ordine psicologico. Gestisce la mia attività a 360 gradi. In un giorno in cui mi ha visto un po’ demoralizzato, mi ha dato una grande mano, mi ha motivato affinché mi ripresentassi carico e ben disposto. Era la settimana dopo il titolo svizzero di Locarno. Ero stato a Thun per le qualificazioni, avevo preso un po’ di freddo, non ero al meglio. Prima di un match ti arrivano addosso tutte... Sauna, bagno turco... Le ho provate tutte per recuperare in fretta, ma non ero al cento per cento. Lui ha saputo motivarmi e “tirarmi fuori” da quello stato.

‘L’avversario sul ring mi aiuta a esprimere quello che sono’

Europei, Mondiali, Olimpiadi, sono gli obiettivi di Tiago Pugno. Ambiziosi ma concreti. «Gli “European Games” – dal 14 al 30 giugno 2019 a Minsk, in Bielorussia – sono una prima importante tappa. Non sarà facile. In un ritiro in Irlanda con la selezione nazionale ho visto all’opera alcuni dei miei potenziali avversari. Forti, ma non irraggiungibili. A casa degli altri non volano i divani, come siamo a volte portati a credere. Con Antonio (Liucci, ndr) abbiano già impostato il lavoro: mi ha detto chiaramente che i sacrifici che ho già fatto non sono nulla di fronte a quelli che mi attendono. Voglio fare un bel risultato: per me, per la Svizzera, per il Ticino. Mi piace rappresentare la Svizzera, sono fiero di combattere con i colori rossocrociati».

Un match vinto a Minsk apre le porte dei Mondiali. «Sì, ma è presto per dire se sarà sufficiente anche per le Olimpiadi. Potrebbe essere necessario vincere un match anche ai Mondiali».

Tiago è membro dei quadri nazionali di Swiss Boxing, con cui prende parte regolarmente a tornei internazionali. Ma non sono state solo rose e fiori, nemmeno lì. «Ho purgato un anno di sospensione della licenza, decisa sulla base della segnalazione della Procura pubblica. La federazione svizzera ha dovuto allinearsi, anche se la storia era ormai vecchia di tre anni, e superata. Decisione discutibile, ma l’ho accettata. Non mi sono demoralizzato, anzi ho lavorato per un anno con ancora maggiore intensità, per farmi trovare ancora più pronto, al rientro. Così è stato: a un torneo in Olanda ho vinto la medaglia di bronzo. Swiss Boxing mi ha riaccolto. Ovviamente, non accetterebbero una “ricaduta”, ma hanno fiducia in me, e mi hanno sostenuto. Dal primo raduno, ho ricominciato a fare punti. Nella mia categoria (56 kg) non c’è avversario che possa tenermi testa. Agli Svizzeri andati in scena a Locarno ho battuto nettamente un ragazzo che voleva contendermi il posto nella selezione nazionale. Sul ring ho fatto quello che dovevo fare: gli ho fatto capire di non essere d’accordo (lo ha messo giù al 1° round, ndr)».
L’avversario... «Nella boxe la battaglia principale è quella contro sé stessi. Io non vedo una persona da picchiare, sulla quale riversare la mia rabbia. Anche perché prima di un combattimento cerco proprio di essere tranquillissimo. Privo di rabbia, appunto. A chi mi chiede come faccio a picchiare qualcuno sul ring, rispondo che nel mio avversario vedo un ragazzo con i miei stessi sogni, i miei stessi obiettivi. Una sorta di compagno che mi aiuta a esprimere quello che sono. Se ho la possibilità di metterlo giù, la colgo. Funziona così anche negli altri sport, in fondo».