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Chi è Bewar? Una storia d'integrazione

Il Gran Consiglio potrebbe chiedere a Berna di non espellere il curdo iracheno residente a Bellinzona. Un profilo

(Ti-Press)
6 giugno 2018
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In occasione degli sviluppi di ieri, ripubblichiamo un articolo apparso il 13 aprile scorso su Ticino7 (distribuito tutti i venerdì con laRegione e nelle cassette di 20 Minuti)

È una specie di timidezza estroversa, quella che incroci nello sguardo di Bewar Omar, curdo iracheno, parrucchiere professionista. Ti sorride, ti fa subito intuire che gli fa piacere la compagnia e che ha un sacco di cose da raccontarti, ma forse ha anche paura di essere frainteso. Perché in effetti la sua, nell’ultimo periodo, pare divenuta una storia di malintesi.

Altrimenti è difficile spiegarsi come mai questo trentunenne arrivato in Ticino nel 2008 – uno che ha imparato un ottimo italiano, si è trovato un lavoro sicuro, ha costruito una gran cerchia di affetti ticinesi – debba essere rispedito a ‘casa sua’. Ma questa è la decisione della Segreteria di Stato della migrazione (Sem). Nonostante il sostegno del Cantone, nonostante le 4’644 firme di una petizione consegnata a Palazzo delle Orsoline, nonostante i ricorsi contro la negazione del diritto d’asilo e il relativo allontanamento (tuttora pendente). Bewar si è visto negare perfino un provvisorio permesso F, quello «per il cittadino straniero il cui allontanamento dalla Svizzera, disposto nei suoi confronti, si è rivelato inammissibile, non ragionevolmente esigibile o impossibile».

In fuga

E dire che viene da un teatro di guerra, pulizie etniche e violenze assortite, Bewar. Da quel caos etnico e militare che è il Kurdistan, dove è nato nel 1986, nel bel mezzo del conflitto fra Iraq e Iran. Il padre gliel’hanno ammazzato quando lui era piccolissimo – «non l’ho neanche conosciuto» -, lo zio è scomparso per sempre. Poi la guerra dei primi Duemila, l’adolescenza «in un posto dove non puoi vivere senza prendere in mano un fucile», il fratello ucciso «per un tradimento». E la decisione di scappare da quel fuoco incrociato, a costo di lasciarsi dietro madre e sorella.

«Una persona mi ha aiutato ad arrivare in Turchia. Poi ho dovuto pagare dei passatori per venire in Europa». Si ricorda «la paura, il freddo, la fame», e un tarlo di domanda: «Ce la farai o non ce la farai?». Come quella volta che per imbarcarsi su un traghetto dalla Turchia alla Grecia lo hanno fatto nascondere nel doppiofondo di un furgone. In cinque, in un’intercapedine non più alta di una bara: «Sono rimasto steso per 17 ore. Non potevo mangiare, bere, fare i bisogni. Il respiro si condensava e mi ricadeva in faccia. Quando sono uscito non riuscivo a camminare». E invece da camminare ce n’era ancora parecchio. «Io non so nuotare, ma due volte abbiamo dovuto attraversare dei fiumi. La prima volta col peso della borsa sono sprofondato nella melma, e sono finito con la testa sott’acqua. Riuscivo a tenere fuori solo una mano. Ho pensato ‘ecco, è la mia fine’. Per fortuna un altro ragazzo mi ha preso per il braccio e mi ha tirato su». Il secondo fiume, pieno di rapide, passato con un canotto «che a un certo punto è scoppiato. Ma boh… anche lì ce l’abbiamo fatta». È pieno di «boh», il suo racconto di quei giorni, come dire che ancora non si spiega bene com’è riuscito a portare la pelle dall’altro lato della fortuna. «Lì per lì, pensavo solo a scappare».

La lunga strada verso casa

Si è fatto strada fino a Chiasso, accolto nel settembre 2008 al centro per i rifugiati. «Il mio primo pensiero è stato: ecco la pace! Ecco un posto dove se esci di casa sai che puoi tornare». Chiaro: ci stavano la solitudine, la famiglia lontana, la lingua sconosciuta. Un anno e qualche mese in un centro della Croce Rossa a Lugano-Paradiso, nell’inevitabile limbo di chi attende lo statuto di rifugiato. Ma c’era anche la gratitudine per l’aiuto, e la voglia di camminare con le proprie gambe. «Mi sono detto: ora sono salvo. Ora devo farmi la mia vita». Ha seguito i corsi di italiano, e oggi parla talmente svelto che la penna fatica a stargli dietro.

Inizia così il suo presente. «Il mio sogno nel cassetto è sempre stato quello di fare il parrucchiere. Anche quando stavo con gli altri rifugiati mi davo sempre da fare per imparare a tagliargli i capelli, la barba. Certo che le prime volte qualche danno lo facevo…». La possibilità è arrivata otto anni fa, quando Bewar è passato davanti al Salone Fantasy, a due passi dalla stazione di Bellinzona. «Ho provato a presentarmi, come facevo sempre». Nonostante l’italiano sghembo e quell’approccio improvvisato, la titolare Stefania Giannini (vedi pagina seguente) lo ha accolto senza esitazioni. «Dopo mi ha detto ‘ti ho guardato negli occhi e mi sono subito fidata…’, è una gran donna!».

Lavorare in bellezza

Da quel punto in poi la vita di Bewar è diventata, per chiunque se non per una lontana burocrazia, quella di qualsiasi apprendista ticinese. Ha iniziato da tuttofare, dando una mano in attesa di migliorare la lingua. «Mi ricordo che a volte mi chiedevano una spatola e io arrivavo con le forbici». Poi ha svolto con successo l’apprendistato empirico, «ma non mi sono voluto fermare»: ha conseguito anche l’attestato di capacità, e si è fatto «un soggiorno bellissimo» in un salone a Zurigo, per migliorare ancora. Intanto al Fantasy è diventato uno di casa. «Mi piace parlare con le persone. E poi mi piace tagliare i capelli: è un lavoro pulito, è un lavoro di bellezza. Dio mi ha dato le mani per questo lavoro».

A questo punto mi tocca chiederglielo, con l’aria che tira e col gran parlare d’islamizzazione e di radicalismo: d’accordo, dio, ma quale? «Guarda, io il lavaggio del cervello che fanno da dove vengo l’ho lasciato dietro. Se sei una brava persona, se non mi fai del male, sei mio fratello. Basta così».

Mi ricordo che sono qua per fare un’intervista, non un romanzo di buoni sentimenti, e mi costringo a insistere: vabbè, dai, ma qualche problema di adattamento ce l’avrai avuto, mica Carasso è il Kurdistan. «All’inizio era tutto diverso. Però vedevo che tutti mi rispettavano, e ho imparato a rispettare tutti e a seguire le stesse regole. Poi i miei amici qui sono tanti ticinesi. Solo non sono ancora riuscito a mangiare le costine…» e lascia andare una breve risata, un po’ trattenuta, come se avesse paura di suonare sguaiato o fasullo.

«Scherzi a parte, devo confessare che all’inizio non ero abituato a prendere ordini da una donna. Ma ho capito subito che non c’entrava niente. Lei e le mie colleghe erano tutte gentilissime». Dopo un paio di settimane si è perfino fatto convincere a depilare la spalle: «Perché sono pelosissimo, ma non mi hanno detto che me lo facevano con le striscette per i baffi! Sembravo una zebra». Insomma «stavamo bene insieme, lavoravamo, scherzavamo, ci prendevamo in giro…».

Una vita sospesa

Stavamo, lavoravamo. Perché adesso, con questo rifiuto del Sem, da un paio di mesi Bewar non può più lavorare. La voce trema, si nota un’increspatura negli occhi azzurri che volge subito a terra. «Oddio, le parole mi sono rimaste qua», dice indicandosi la gola. «Io non riesco a stare senza lavorare. A volte mi sveglio ancora alla mattina convinto di poter andare al lavoro. Dopo sto male. Ho anche chiesto di fare volontariato, spazzare le strade, ma non possono prendermi».

Va ancora a trovare colleghe e clienti tutti i sabati: «Una signora di 84 anni, che mi faceva da modella quando imparavo il mestiere, mi ha detto: dai, se vuoi restare qua ti sposo io! Sono vedova, mi dai una mano in casa». Da tre anni ha anche una compagna, che ha conosciuto a scuola: «Appena l’ho vista ho pensato: questa è quella per me. Anche se ci ho messo un po’… Ma non voglio sposarla solo per questioni di permesso. Lei è giovane, non voglio metterle fretta». E la chiude lì, perché non vuole sventolare i suoi affetti pur di farsi compatire.

Preferisce parlare della sua musica preferita – «Laura Pausini» – e di tutti i film che ha guardato, per divertirsi e per imparare la lingua. «Mi piace da morire Fantozzi. E Lino Banfi, quando si dà gli schiaffi sulla testa…». E poi gli piacciono lo sport e la natura. «Quando ho visto il paesaggio a Interlaken, mi sembrava disegnato. Mi piacciono le escursioni, camminare in montagna, mi ricordo il ponte dei Salti in Verzasca».

Crederci ancora

Il problema, adesso, è che Bewar si ritrova al punto di partenza. E rischia di essere rispedito in Kurdistan perché il Paese non è giudicato pericoloso per lui, nonostante quello che dice agli svizzeri il sito del Dipartimento federale affari esteri: «Sono sconsigliati i viaggi a destinazione dell’Iraq, inclusa la regione del Kurdistan. La situazione rimane confusa. La sicurezza non è garantita; il rischio di sequestri (anche con esito fatale) da parte di gruppi terroristici o criminali è molto elevato e interessa sia la popolazione locale sia gli stranieri».

Ora Bewar vive dei suoi risparmi. «Ma quando finiscono rischio di dover tornare in un centro della Croce Rossa. Io ero indipendente, e magari finisco costretto ad andare in assistenza». E poi via, lontano da quella che è a tutti gli effetti casa sua. Tutte cose che ti racconta più con delusione che con rabbia. Perché lui nella Svizzera ci ha creduto subito, e continua a crederci.

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LE COLLEGHE DI LAVORO
 

«Siamo come Sandra e Raimondo: ci facciamo le battutine, ci prendiamo in giro, ci divertiamo!». Spiega così il suo legame con Bewar la sua ex (ma speriamo per poco) datrice di lavoro. Stefania Giannini gestisce un salone di parrucchiera a due passi dalla stazione di Bellinzona, ormai da 28 anni. È anche maestra di tirocinio, perita d’esame e ha visto passare 11 apprendisti. Ma quel ragazzo che le si è presentato all’improvviso otto anni fa l’ha colpita in un modo tutto suo.

Come è nato tutto?

«Cercavo un apprendista e per una volta volevo provare con un ragazzo. È arrivato qui con la sua gentilezza, e i suoi occhi mi hanno subito conquistato. Mi sono detta: proviamo».

La lingua non è stata un ostacolo?

«All’inizio faceva fatica a capire alcune cose, certo. Poi è una persona orgogliosa, per cui magari ti diceva di aver capito cosa gli avevi chiesto, ma poi si sbagliava. Però l’abbiamo risolta subito, volenteroso com’è. Ormai coi clienti fa perfino qualche battuta in dialetto».

Come ha preso il resto dello staff l’arrivo di Omar?

«All’inizio, da unico maschio in mezzo alle donne, si è dovuto un po’ adeguare... Lo ammette anche lui che per la sua cultura era una cosa strana. Ma si è adattato e si è fatto voler bene da tutti, è uno di famiglia. Anche perché è sempre disponibile: oltre al lavoro coi clienti ti aiuta a ridipingere, riparare luci, carrelli… Infatti ormai da anni è lui che gestisce il personale e la cassa, quando io sono in ferie o in trasferta. So che mi posso fidare al 100%».

Come avete vissuto le sue vicende d’asilo?

«All’inizio speravamo in un’eccezione, senza dovere mediatizzare la questione. Cercavamo di incoraggiarlo a prenderla alla giornata, fiduciose nel futuro. La buttavamo sul ridere: chiedevamo alle clienti di sposarselo. Poi abbiamo visto che eravamo agli sgoccioli, e abbiamo deciso di sensibilizzare l’opinione pubblica».

La vostra petizione ha raccolto quasi 5’000 firme. In quanto tempo?

«Due settimane scarse. Sfruttando i social e setacciando clienti, case anziani, palestre, commerci. E poi ci ha aiutato il passaparola».

Ora Bewar non può lavorare...

«Infatti abbiamo messo un ‘salvadanaio’ in salone, per raccogliere fondi che gli permettano di andare avanti. È incredibile la generosità di tutti i clienti: pensi che stamattina uno ha lasciato giù cento franchi. Intanto Bewar viene sempre a trovarci. Speriamo possa tornare presto anche a lavorare!».

 

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