Salario minimo: la vicenda delle tre aziende del Mendrisiotto ripropone la storica contrapposizione tra due visioni dell’economia e della società
Dato un certo livello di produttività del lavoro e acquisita una determinata quota di mercato, l’unica maniera per un’azienda di incrementare la propria redditività sarebbe attraverso un’intensificazione dello sfruttamento della manodopera, ovvero allungando la giornata lavorativa oppure pagando di meno il personale. Se invece vi fosse un mutamento delle condizioni quadro, circostanze che per esempio spingono al rialzo la retribuzione dei dipendenti – come può essere il caso dell’entrata in vigore di una norma costituzionale che stabilisce un salario minimo, valida per l’intera regione –, per l’impresa la sola chance di mantenere inalterato il volume del proprio profitto, sia in termini assoluti che relativi, starebbe nel riuscire a eludere tale disposizione.
È tutta qui la spiegazione di ciò che sta accadendo con le tre ditte del Mendrisiotto che, appoggiandosi all’associazione padronale ‘Ticino Manufacturing’ e all’organizzazione sindacale – o presunta tale – ‘TiSin’, hanno forzato i propri collaboratori ad accettare un Contratto collettivo di lavoro (Ccl) – o presunto tale –, il quale prevede retribuzioni inferiori rispetto a quanto stabilito nella legge sul salario minimo approvata dal parlamento e dal popolo, pronta a entrare in vigore il prossimo dicembre.
Diciamo che il principale problema del salario lordo di 15 franchi all’ora offerto dalla Plastifil di Mendrisio, dalla Ligo Electric di Ligornetto e dalla Cebi di Stabio è che, volente o nolente, comporta due “vantaggi”: alle imprese in questione permette di conservare inalterata la propria redditività. Mentre al personale frontaliero la paga oraria pattuita – di qualche franco inferiore a quanto previsto nella costituzione cantonale – consente in ogni caso di sbarcare il lunario, visto il costo della vita parecchio inferiore dall’altra parte del confine.
Di tutto ciò è ben consapevole l’avvocato Costantino Delogu, presidente della ‘Ticino Manufacturing’, il quale nei giorni scorsi ha apertamente dichiarato quanto sia ad oggi impossibile “indennizzare determinate attività manifatturiere ai salari orari definiti politicamente”. Un Delogu che nella sua presa di posizione non ci ha girato molto attorno: o così, oppure licenziamenti di massa e delocalizzazioni della produzione. All’avvocato ha fatto eco l’ex sindacalista Nando Ceruso, che in conferenza stampa ha difeso a spada tratta l’agire dell’organizzazione da lui presieduta: “Abbiamo agito in buona fede, in difesa del lavoro in Ticino”. Siamo sicuri?
In fondo, si tratta della storica contrapposizione tra due visioni: quella che crede ciecamente nella libertà di contrattazione tra privati in un mercato che si autoregola, e quella che invece conferisce allo Stato il compito di arbitro, col mandato di tutelare il tessuto socio-economico cantonale, sia dalla parte dei lavoratori, sia dalla parte delle imprese.
Resta il fatto che la legge sul salario minimo entrerà in vigore a dicembre. Sotto la soglia dei 19 franchi lordi l’ora, si dice, un lavoratore residente non riesce ad arrivare alla fine del mese. Una sorta di sottile ‘linea rossa’ per le aziende. E se è vero che tutte le imprese cercano il profitto costi quel che costi (anzi, meno costi più profitto), qui si tratta di una conseguenza logica: visto l’articolo costituzionale, una ditta con sede in Ticino deve essere in grado di ottenere plusvalore pagando i propri dipendenti non meno di 19 franchi all’ora. Altrimenti la sua attività da un punto di vista legale, ma anche economico, non ha ragion di essere.
Chiaro, la norma costituzionale ha almeno un grosso difetto: esclude dall’applicazione le aziende nelle quali i rapporti di lavoro sono regolati da un Ccl. Questo è in effetti il motivo per cui quanto sta succedendo con le tre aziende del Mendrisiotto, seppur deplorevole, non costituisce una violazione della legge, bensì un palese raggiramento. Ed è proprio lì, in quel “buco” (grazie @Erroi), che si sono infilate le tre ditte, ‘Ticino Manufacturing’ e ‘TiSin’, capogruppo e vice della Lega compresi.
Ora la palla è nel campo della politica. L’Mps in primis e il Ps poi hanno già annunciato delle iniziative parlamentari che chiedono l’abrogazione della controversa clausola di eccezione per i Ccl. Da un punto di vista giuridico non dovrebbero sorgere grandi intoppi di fronte a una tale revisione: fa stato la recente sentenza del Tribunale federale a proposito del caso neocastellano. Il problema più che altro è che una modifica costituzionale richiede tempo, e in questa storia tanto tempo a dire il vero non ce n’è (time is money). Nel mentre, a essere chiamato in causa per metterci una pezza potrebbe essere il Consiglio di Stato. Quale sia effettivamente il margine di manovra del governo in questa intricata vicenda è tutto da verificare.