Mendrisiotto

Salario minimo: 'Andremo fabbrica per fabbrica'

I sindacati Ocst e Unia pronti a dare battaglia alle 'manovre' messe in atto da tre aziende del Mendrisiotto. Intanto, a Neuchâtel il Tf parla chiaro

Si batterà il territorio fabbrica per fabbrica (Ti-Press/Elia Bianchi)
10 settembre 2021
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I cancelli della Cebi, a Stabio, sono chiusi. Il messaggio che arriva dai vertici dell’azienda è chiaro: da qui non si passa. Il cortile della fabbrica di un primo pomeriggio di settembre assolato è deserto. Da alcune finestre filtra il rumore dei macchinari; e si intravede qualche operaio intento alle sue mansioni. A prima vista è una comune giornata di lavoro lì all’ex Mes-Dea. La calma piatta, in realtà, nasconde però ben altro. Con la Plastifil a Mendrisio e la Ligo Electric a Ligornetto, la Cebi è una delle tre industrie del Mendrisiotto che sta tentando, di fatto, di trovare una scappatoia all’introduzione, il dicembre prossimo, del salario minimo, divenuto legge. Per Ocst e Unia quello che si sta mettendo in scena è un vero e proprio «teatrino». I sindacalisti fanno nomi e cognomi. Innanzitutto, quelli di TiSin, che vedono al loro interno esponenti della Lega quali Boris Bignasca e Sabrina Aldi, e Ticino Manufacturing, due «fantomatiche associazioni padronali», tacciati in questo caso di essere «complici» dei datori di lavoro. Ecco perché i due sindacati storici non potevano certo restare a guardare: ieri al di qua della cancellata hanno fatto sentire la loro voce. È il primo atto di una campagna di informazione con la quale intendono battere il territorio, fabbrica dopo fabbrica, per chiedere ai lavoratori di uscire allo scoperto e di segnalare eventuali anomalie. Come quella di aderire di botto a un Contratto collettivo di lavoro (Ccl), derogando così dall’obbligo di attuare la nuova normativa in materia salariale. L’effetto domino, fanno capire, è dietro l’angolo.

’Il governo intervenga subito’

Il caso delle tre ditte momò, lo si è visto, ha scosso subito la politica ticinese. Ieri è salita una voce anche dal Distretto. Il Ps Mendrisiotto e Basso Ceresio ha ribadito che "se davvero si vuole un miglioramento delle condizioni di lavoro nel Mendrisiotto e in generale in Ticino, episodi come quelli a cui stiamo assistendo vanno condannati e creata una pressione tale da obbligare i datori di lavoro a tornare sui propri passi e far fronte a quanto previsto dalla Costituzione, senza più dare spazio di manovra ad associazioni montate ad hoc che di sindacale non hanno neanche il minimo". Ocst e Unia, però, si aspettano molto di più dalle istituzioni. «Il governo - scandisce Vincenzo Cicero, cosegretario responsabile Unia Sottoceneri - non può mettere la testa sotto la sabbia. Quindi abbiamo chiesto al Consiglio di Stato un intervento immediato, oltre a un incontro fra le parti al fine di annullare i contratti che si stanno firmando». Il cosegretario di Unia si spinge oltre e bolla come «spaventose» le parole giunte dal Dipartimento finanze ed economia e rimbalzate su ’laRegione’ di ieri per voce del direttore della Divisione economia Stefano Rizzi. E spiega: «Non si possono rinviare ai tribunali questioni di cui è compito del governo occuparsi». Da parte loro i due sindacati lo fanno capire chiaramente: non lasceranno nulla di intentato per mettersi di traverso a questa operazione. Al momento si stanno vagliando tutti gli aspetti giuridici.

’La Cebi? Solo l’inizio’

La Cebi, quindi, è la prima tappa di una lotta che per chi è dall’altra parte della barricata, dentro gli stabilimenti, non è certo facile abbracciare. Soprattutto quando il posto di lavoro è appeso a un filo. Gli operai, richiamano Ocst e Unia, sono «sotto la minaccia di delocalizzazione e licenziamento». Anche prendere un volantino, quindi, diventa un atto di coraggio: «Abbiamo visto delle persone prendere il numero di targa dei dipendenti che l’accettavano», ci dicono. «Si capisce bene - rimarca Cicero, al suo fianco il collega Giangiorgio Gargantini - perché diciamo che le maestranze vengono obbligate ad accettare le nuove condizioni contrattuali». E qui sta il punto: le clausole ancorate all’accordo, come mostra Nenad Jovanovic, vicesegretario regionale dell’Ocst nonché responsabile del settore industria nel Mendrisiotto, sono peggiorative rispetto a quanto previsto per legge, e non solo dal profilo salariale, con quei 3 o 4 franchi l’ora in meno rispetto ai 19 fissati dal salario minimo.

’Questo non è un vero Ccl’

Jovanovic lo fa capire senza tanti giri di parole: il Ccl che hanno messo in mano agli operai della Cebi (come ai colleghi della Plastifil o della Ligo Electric) non ha nulla di un Contratto collettivo canonico. «È un documento creato ad arte - rilancia -. Basta questo: qualsiasi punto dell’accordo è a esclusiva discrezione della direzione aziendale, a cominciare dal salario. Infatti, non solo è retroattivo e valido a partire dal primo settembre, ma in calce aveva già la firma. Quindi ancora prima del voto del personale». Però a contratto, dunque sulla carta, viene dichiarato di garantire ai lavoratori completa libertà sindacale. Ecco per quale motivo i sindacati storici si sono rifiutati di confrontarsi con queste aziende, che peraltro non hanno mai avuto un Ccl. «Sì, ci hanno contattato - dice Jovanovic -, ma abbiamo rispedito al mittente la richiesta di incontrarci. Non ci siamo neanche seduti al tavolo delle trattative».

’Due associazioni dalla parte dei padroni’

Lo hanno fatto altri, però. E qui entrano in scena l’organizzazione TiSin, in quota Lega, e Ticino Manufacturing. La dice lunga, richiamano Jovanovic e Cicero, il fatto che «a livello legislativo tutti i Ccl in Svizzera prevedono un contributo di solidarietà che va riversato in un fondo paritetico, dunque non ai sindacati o altre associazioni. In questo caso, invece, vi è una soluzione pittoresca: per ogni dipendente l’azienda riverserà direttamente a TiSin una quota parte. E non sarà il lavoratore a scegliere. «Lo possiamo dire: in pratica - ribadisce Cicero - pagano il ’pizzo’: è la ditta che sceglie il sindacato e lo paga». A chiudere il cerchio, chiosa il cosegretario Unia, «vi è la constatazione che a firmare il contratto sono due associazioni ’padronali’: la prima, TiSin, non è un sindacato; la seconda di fatto non esiste». Ma è chiaro, i sindacati non fanno sconti neppure alla classe imprenditoriale.

L'esempio

A Neuchâtel il Tf ha parlato chiaro

Il Movimento per il socialismo, con un'iniziativa parlamentare, propone la modifica della legge ticinese sul salario minimo, cancellando la disposizione secondo cui la normativa "non si applica ai rapporti di lavoro per i quali è in vigore un contratto collettivo di lavoro di obbligatorietà generale o che fissa un salario minimo obbligatorio". Il Ps, per il tramite del suo copresidente Fabrizio Sirica, dal canto suo ha annunciato un 'iniziativa per aumentare a 21/21,50 franchi il salario minimo legale e per rimuovere la deroga per i contratti collettivi di lavoro. Ma la giurisprudenza del Tribunale federale cosa dice?

Allarghiamo allora lo sguardo al di fuori dei confini cantonali. E andiamo a scorrere il verdetto del Tribunale federale sulla vertenza nel Canton Neuchâtel. L'Alta Corte in questo caso non lascia margine all'interpretazione in un passagio in particolare della sentenza. Fissato un termine per concludere la modifica dei contratti in vigore, così da stabilire dei salari in ossequio alle disposizioni di legge - che nel cantone romando hanno posto a 20 franchi l'ora il salario minimo -, il Tf fa presente come, in difetto di un accordo, o di fronte a un salario minimo inferiore a quanto ancorato alla norma, va applicato quanto prescritto all'articolo 32 della 'Loi sur l'emploi et l'assurance-chômage'. In altre parole valgono i 20 franchi orari: dal salario minimo, insomma, non si sfugge. Il passaggio appare cruciale anche alla luce di quanto sta accadendo nel Mendrisiotto. L'attesa per la decisione del Tribunale federale chiamato a pronunciarsi sul ricorso di una decina di aziende - tra le quali anche le tre momò - si fa spasmodica.

Lo stesso concetto contenuto nella sentenza del Tf era stato ripreso, a suo tempo, in una bozza di rapporto per attuare l'articolo costituzionale, stilata in seno alla commissione parlamentare della Gestione dal socialista Ivo Durisch. Si legge nel documento, in cui si richiama il punto 6.2 del verdetto di Mon Repos: "Il salario minimo legale può applicarsi anche ai settori coperti da un Ccl – come deciso a Neuchâtel – laddove questi contratti prevedano un salario minimo inferiore a quello legale. Le parti a contratto possono modificare i Ccl adattandoli al salario minimo legale, se non lo fanno si applica comunque il salario minimo legale. Non è necessario fissare un termine nella legge per adattare i Ccl al salario legale. In ogni caso il salario minimo legale verrà applicato automaticamente, per legge, senza che il Tribunale federale ravveda in questo una violazione della libertà sindacale (articolo 28 capoverso 1 Cst) (Cons. 6.2)". Una valutazione che non è stata però condivisa dalla maggioranza della commissione.

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