laR+ L'analisi

Quando Hamas vince nei sondaggi

Ha un nome la crisi in cui versa l’Anp: Mahmud Abbas. Mentre il movimento radicale islamista viene visto ormai come unica forza in grado di fronteggiare Israele

Abu Mazen
(Keystone)
12 luglio 2021
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Si parla molto di una guerra, nello specifico tra Israele e Gaza. Assai meno del dopoguerra. Che invece produce sorprese e scossoni. Non necessariamente positive. In Israele, nel nome della solidarietà nazionale – ma in realtà della comune avversione nei confronti di Netanyahu – sulla poltrona di premier arriva il ‘falco’ nazional-religioso Naftali Bennett, profeta dei coloni e delle annessioni territoriali, alla guida di una inverosimile e fragile coalizione senza programma e in cui c’è ogni cosa, dall’estrema destra alla sinistra radicale, tutto e il contrario di tutto. Niente di cui rallegrarsi, s’è detto.

Ma tra i palestinesi va pure peggio. È in piena crisi l’Anp, l’Autorità nazionale a cui gli accordi di Oslo avevano assegnato la gestione più che altro amministrativa dei territori occupati, ora solo la Cisgiordania, essendo Gaza sotto la dittatura islamista di Hamas. Una crisi che ha un nome preciso: Mahmud Abbas, alias Abu Mazen, l’ottantacinquenne presidente dell’Autorità nazionale palestinese, in carica da 17 anni, che ha annullato nuove elezioni e scatenato quella che Le Monde definisce “una violenta ondata di repressione, perdendo quel poco di onore che gli restava” dopo tre lustri di passività politica e di corruzione fra i suoi luogotenenti. Lo scorso mese un suo oppositore, Nizar Banat, che ne denunciava il crescente autoritarismo, è stato picchiato a morte dai poliziotti palestinesi che dovevano arrestarlo; le successive proteste popolari sono state brutalmente represse da agenti in borghese. Così, l’uomo che contribuì alla pace con Rabin, è oggi un “despota aggrappato al potere illusorio di un apparato statale che uno Stato non ce l’ha”.

Abu Mazen sa benissimo di essere uno degli sconfitti politici dell’ultima guerra Israele-Gaza. Pochi hanno dato peso a un recente sondaggio del ‘Palestinian Center for Policy and Survey Research’, che certifica una svolta poco tranquillizzante: per il 52 per cento dei palestinesi (compresi quelli di Cisgiordania) i radicali islamisti di Hamas sono degni di rappresentarli, contro appena il 14 per cento ancora favorevole al laico Fatah. “Arafat si rigira nella tomba”, ha scritto un osservatore. Si tratta solo di un’istantanea provvisoria, o di un durevole cambio di paradigma all’interno dell’opinione pubblica palestinese? Sta di fatto che oggi Hamas viene visto come la forza che ha saputo fronteggiare la potenza di fuoco di Israele; e Abu Mazen come leader impopolare e cedevole nei confronti dello Stato ebraico. Tremila intellettuali e personalità pubbliche palestinesi gli hanno chiesto di dimettersi.

Così, la somma delle novità politiche israeliane e palestinesi non promette nulla di buono. E disorienta ancor più la comunità internazionale: frastornata e muta negli anni sfacciatamente pro-israeliani di Trump, disorientata dagli enigmi di Biden, convinta che la questione palestinese potesse sparire dall’agenda diplomatica, pigramente ancorata alla soluzione dei due Stati, l’Europa si ritrova come unico e improbabile interlocutore un Abu Mazen del tutto screditato. Un fallimento, ed esplosive insidie.