Ogni repubblica delle banane necessita di un vero caudillo al quale tutto si perdona perché con il suo temperamento sarà capace di risolvere ogni male
È successo con le telenovelas, con il reggaeton e di recente con il calcio. Tutto quello che sa di latino piace talmente tanto a Nord che può, a un certo punto, diventare un prodotto ‘made in Usa’. Ora è il turno della politica. In effetti, il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca nella veste di 47esimo presidente può anche essere letto come la definitiva latinoamericanizzazione degli Stati Uniti. Una tipica parabola di un qualsiasi leader “eterno” terzomondista: ci fu il ritorno di Perón dall’esilio nell’Argentina degli anni Settanta e quello della signora Kirchner nel 2019, con tanto di denunce per corruzione che l’hanno preceduta; di Lula, in prigione per lo scandalo ‘Lava Jato’ dopo i suoi primi due mandati presidenziali in Brasile, riemerso per battere Bolsonaro e riprendersi il Palazzo di Planalto; ci sono delle brutte storie di rientro come quella di Daniel Ortega in Nicaragua, e c’è anche una lunga lista di personaggi – a destra come a sinistra – che hanno cercato in tutti i modi di perpetuarsi al potere, calpestando laddove necessario la Costituzione e lo Stato di diritto: Nicolás Maduro, Evo Morales, Alberto Fujimori, Álvaro Uribe…
Infatti ogni repubblica delle banane degna di tale nome necessita di una guida carismatica in cui rispecchiarsi, un vero caudillo al quale tutto si perdona perché – dicono – con il suo temperamento sarà capace di risolvere ogni male che affligge la società. Ecco allora il tycoon “del pueblo”, colui che denigra gli immigrati, “gli haitiani che mangiano i gatti”, i messicani che vanno fermati nel loro Paese dietro un muro che “protegga” l’America, gli honduregni che stanno “invadendo” gli Usa. Che poi Trump abbia ottenuto la sua rielezione (dopo quattro anni di pausa) radicalizzando il suo discorso retrogrado, in buona parte grazie al voto della comunità ispanoamericana, non fa che confermare l’ipotesi che vede il processo di metamorfosi di quella che una volta veniva considerata la democrazia liberale per antonomasia definitivamente compiuto.
Gli Stati Uniti il 5 di novembre 2024 hanno votato come si vota in qualsiasi Stato latinoamericano: con la mano nel portafoglio e gli occhi rivolti ai prezzi degli scaffali dei supermercati. Trump ha mentito più volte, vero. È stato denunciato e condannato per abusi sessuali e per diffamazione, vero. Ha simulato una scena di sesso orale con un microfono in uno dei suoi ultimi comizi, vero. E tanto altro, pure. Ma durante i suoi anni di presidenza gli hamburger e le ribs costavano parecchi dollari in meno. Punto.
Così il pendolo delle elezioni Usa è tornato a segnare ‘repubblicano’, un’oscillazione un po’ frenetica da un estremo politico all’altro che si ripete per la terza volta di fila: un fenomeno assai ricorrente nei Paesi del “cortile di casa”, quelli in cui gli americani hanno esportato per decenni una “lodevole” versione di democrazia fatta di indebitamento infinito, violazione sistematica dei diritti umani e perenne sottomissione.
Come se l’argomento economico non bastasse per spiegare la netta vittoria di Trump, ci sarebbe inoltre da aggiungere la questione iconografica legata al tentato assassinio dello scorso 13 luglio in Pennsylvania. La potenza simbolica dell’immagine del tycoon che si rialza con l’orecchio insanguinato e il pugno serrato dopo essere sopravvissuto “per miracolo” alla morte, con dietro di lui la bandiera ondeggiante a stelle e strisce, ha conferito alla sua corsa di rientro alla Casa Bianca quel tocco di realismo magico – caratteristico della letteratura latinoamericana del XX secolo – probabilmente utile a renderla del tutto inarrestabile.