Tra 10 anni, un decesso su venti in Svizzera sarà un suicidio assistito. Così la morte ci mette a nudo fino all’essenza
Oltre alla nascita, oggi si può programmare quando morire, anche quando iniziare il lutto. In Asia si può conversare con gli avatar dei propri cari scomparsi grazie all’intelligenza artificiale. Usando foto, vocali e video per catturare la voce e le espressioni facciali dello scomparso, le aziende ricreano il defunto in forma digitale. Una presenza illusoria ma pur sempre una presenza, che posticipa artificialmente la sofferenza del lutto. Ma fino a quando?
Altro fiorente settore è quello del suicidio assistito, legale a determinate condizioni in Svizzera, dove nel 2022 si sono contati 1’600 casi (senza considerare gli stranieri non residenti qui). Secondo gli esperti, tra 10 anni un decesso su venti in Svizzera sarà un suicidio assistito. Quanto questo sia un affare privato o collettivo, quanto sia un atto su cui legiferare maggiormente o meno è l’acceso dibattito in corso dopo che, lo scorso 24 settembre, la Polizia cantonale di Sciaffusa ha scoperto il cadavere di una sessantenne americana in un capanno. Si era tolta la vita utilizzando la controversa capsula Sarco. Una volta sdraiata dentro la struttura le è bastato schiacciare un pulsante per trovarsi immersa nell’azoto liquido, addormentarsi e morire (per asfissia). Arrivata sul posto, la polizia ha arrestato chi era coinvolto avviando un procedimento penale. Rispetto a quanto avviene con le associazioni elvetiche Exit e Dignitas, il suicidio con Sarco non richiede l’intervento di un medico perché l’azoto non è un farmaco, contrariamente al cocktail con pentobarbital. Di fatto, al Governo federale questa capsula è indigesta perché – dicono – non soddisfa i requisiti sulla sicurezza. Ma alla gente interessa ben poco: in pochi mesi almeno 371 persone hanno già fatto richiesta per usare Sarco in Svizzera. E aumentano le coppie che vorrebbero andarsene insieme.
Una cifra che fa riflettere su come si ‘vivono’ la morte e il lutto. O lo spettro della sofferenza, che tutti cerchiamo di scansare. Al riguardo ricordo un amico monaco buddista che faceva della sofferenza la sua palestra mentale. Quando aveva l’emicrania, mentalmente prendeva su di sé anche le emicranie di tutti gli esseri umani. Mi spiegava: ‘È un modo per tagliare l’egocentrismo’. Invece di rimuginare tutto il tempo sul suo dolore, lo aumentava con uno slancio altruistico. La sua attenzione si spostava così da sé stesso agli altri. Scherzando lo chiamavo l’eroe dell’emicrania. Forse il punto è proprio questo: riusciva a risvegliare l’eroe che tutti abbiamo dentro, passando da una mente ordinaria a una mente straordinaria. La sofferenza non era fine a sé stessa, si rivestiva di un significato, invece di subirla la cavalcava. Un punto di vista che apre nuove prospettive forse per alcuni, sicuramente non per tutti. Dunque la possibilità di scegliere il suicidio assistito resta una valida via d’uscita mentale che può dare coraggio quando non c’è più speranza. ‘Ci provo, se non ce la faccio c’è Exit’.
La morte ci mette a nudo fino all’essenza, dando valore a ogni secondo della nostra esistenza. Forse arriva più attrezzato chi ha vissuto pienamente. Come Alessandro il Grande, il re macedone, che fece della sua morte una lezione di vita. Chiese che le sue mani restassero fuori dalla bara e alla vista di tutti. Così che i presenti potessero vedere che anche un grande conquistatore se ne va a mani vuote.