Pazienti ma soprattutto clienti in una giungla sanitaria dove il confine tra cure responsabili e business è tutt’altro che trasparente
Da sempre gli operatori sanitari soffrono di un conflitto di interessi: più operano, più prescrivono, più diagnosticano... più guadagnano. Il rischio è quello di essere più imprenditori che missionari della salute, di perseguire più obiettivi manageriali che etici, soprattutto in un cantone dove già abbonda, probabilmente per cultura, il ricorso facile a esami diagnostici, visite mediche, interventi specialistici, pillole. Costosi esami fatti per abitudine, per accontentare pressanti richieste di pazienti (forse un poco ossessivi) che altrimenti si rischia di perdere, per incassare di più, per paura di sbagliare e incappare in cause legali, per altro ancora. In verità i medici lamentano troppi controlli e una paralizzante burocrazia volta a provare la reale efficacia delle cure erogate. Malgrado ciò, il diffuso sovraconsumo di prestazioni mediche e farmaci resta un inesorabile motore della spesa sanitaria: maggiore è l’offerta, maggiori saranno i costi per doppioni, per esami non sempre giustificati... Alla fine noi assicurati dobbiamo subirne le conseguenze, pagando premi sempre più costosi (aumentano più del Pil e dei salari) e decisamente insostenibili per alcune fasce della popolazione. Per il 2025 l’incremento più alto tocca al Ticino (+10,5%). Per il terzo anno consecutivo sopportiamo una dolorosa batosta.
In questo contesto, si inaugura lunedì una nuova struttura: il Pronto soccorso alla Clinica Sant’Anna a Sorengo. A due passi ce ne sono altri due e mezzo: quello all’Ospedale Regionale di Lugano, quello alla Clinica Luganese e quello di Oftalmologia all’Ospedale Italiano. È necessario avere, nel raggio di pochi chilometri, tre Pronto soccorso e mezzo per 64mila abitanti? Probabilmente la penuria di medici di famiglia e l’obbligo di passare da questi ultimi – per chi ha scelto modelli assicurativi alternativi – spinge sempre più ticinesi verso questi servizi d’urgenza anche per bagatelle. Detto ciò, a noi pare una costosa iperbole sanitaria di cui non si vede la fine. I ticinesi, affetti da una crescente precarietà, non ce la fanno più. Ormai la franchigia elevata è diventata una scelta quasi obbligata e un quinto della popolazione elvetica nel 2023 ha rinunciato alle cure mediche necessarie per motivi economici. Le famiglie svizzere si assumono (calcolano gli esperti) il 60% dei costi sanitari: oltre ai premi, bisogna pagare di tasca propria la franchigia (dai 300 ai 2’500 franchi), il 10% dei costi, più alcuni servizi come cure dentistiche non rimborsati dall’assicurazione obbligatoria. È un buco nero senza fine.
Siamo pazienti e siamo sempre più clienti in una giungla sanitaria dove il confine tra cure responsabili e business è tutt’altro che riconoscibile, dove orientarsi è un’ardua missione, dove molti tirano l’acqua al proprio mulino in un contesto difficile. Nulla si può contro l’evoluzione demografica e i benvenuti progressi tecnologici che fanno lievitare i costi. Dobbiamo invece digerire l’opacità del sistema delle casse malati; le lobby della sanità nel parlamento che non pensano certo di fare gli interessi di chi ogni mese deve aprire il portafoglio; l’immobilismo del governo federale che potrebbe agire per ridurre i prezzi dei farmaci e l’uso eccessivo di servizi specialistici. A breve si voterà sul finanziamento uniforme delle prestazioni sanitarie che favorirà le cure ambulatoriali, rispetto alle costose cure stazionarie. Di ricette ne abbiamo ascoltate e votate tante, ma c’è un’amara rassegnazione: ogni autunno siamo ai piedi della scala.