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Decreto Morisoli: prima la tragedia, poi la farsa

L'iniziativa bis è un brutto miscuglio di contorsioni semantiche e automatismi che andrebbe a invalidare il ruolo di due dei tre poteri dello Stato

In sintesi:
  • Il potere giudiziario, nel frattempo, ha già fatto abbastanza per autodelegittimarsi
  • I vari moniti morisoliani sono solo degli spauracchi fini a sé stessi 
Il ‘mago’ Sergio
(Ti-Press)
11 settembre 2024
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Il capogruppo Udc Sergio Morisoli e il suo portavoce “un tanto al chilo” ci confermano la validità del vecchio assioma secondo il quale “la storia si ripete sempre due volte: la prima come tragedia, la seconda come farsa”. Ecco perché ci si ritrova a discutere di un (im)probabile Decreto bis per il risanamento dei conti dello Stato, decreto che mira a introdurre “un freno immediato della crescita della spesa fino a fine 2027 anziché ricorrere a tagli di corto respiro”. Un brutto miscuglio di contorsioni semantiche condito con qualche automatismo aritmetico che andrebbe a invalidare il ruolo di due – esecutivo e legislativo - dei tre poteri dello Stato (quello giudiziario, nel frattempo, ha già fatto abbastanza per autodelegittimarsi).

L’iniziativa Morisoli bis propone dei tetti massimi alla crescita della spesa pubblica nelle tre voci che contano: personale, beni e servizi, spese di trasferimento. Un vincolo che non è altro che un trucco contabile attraverso il quale il ‘mago’ Sergio e i suoi discepoli tentano di nascondere l’evidenza: in una situazione di Pil-popolazione-bisogni in crescita, riportare il livello della spesa pubblica alla media dei quattro anni precedenti equivale ad applicare un pesante taglio lineare.

Il discorso secondo il quale la fonte di tutti i mali sarebbe la crescita smisurata delle uscite, mentre le entrate terrebbero grazie al gettito fiscale proveniente dal privato, è piuttosto fuorviante. In un territorio che basa il suo “successo” sullo sfruttamento della manodopera frontaliera, il che imprime una pressione al ribasso sui salari dei residenti; in cui il Cantone funge da principale datore di lavoro; dove la classe imprenditrice campa in buona parte grazie alle prebende dello Stato e vanta, nel mercato interno, una posizione di pseudo monopolio (avete mai dato un’occhiata alle etichette delle tapparelle o dei rivestimenti sanitari in casa?); in un contesto del genere è lecito affermare che il livello del gettito fiscale sia una funzione – in termini matematici – del volume della spesa pubblica.

I vari moniti (“l’irrefrenabile crescita del debito” che non raggiunge nemmeno il 10 per cento del Pil; “lo scatto del freno al disavanzo e conseguente aumento automatico delle imposte” che richiede però una maggioranza – inesistente – di due terzi del parlamento) sono solo degli spauracchi fini a sé stessi. L’opposizione alle politiche di austerità non scaturisce quindi da una posizione ideologica, ma pragmatica.

Ciò non vuol dire, tuttavia, che non ci sia margine per rendere più efficace la gestione della spesa pubblica. Infatti il Gran Consiglio, al momento di approvare il Preventivo 2024, ha deciso che prima di tutto va fatta una spending review seria e indipendente. Ecco perché appare coerente che i partiti di governo (e non solo) si siano detti contrari alla proposta morisoliana, anche se poi ognuno con le proprie sfumature…

Sono passati quasi cinquant’anni da quando l’economista Angelo Rossi ha pubblicato ‘Un’economia a rimorchio’. Oggi un altro Rossi, economista pure lui ma di nome Sergio, afferma che in Ticino il rimorchio si è addirittura rotto “e non ci sono nemmeno i mezzi per ripararlo”. Bassi salari, fuga di cervelli, denatalità, invecchiamento della popolazione, aumento dei costi sociali e sanitari, fragilità delle finanze pubbliche: siamo di fronte a un autentico circolo vizioso e non si intravede da nessuna parte una volontà politica maggioritaria di mettere in discussione l’attuale paradigma. Anzi.

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