La fine della guerra non si vede, mentre l’aggressore, da lontano, continua a provocare. C'è ancora molto da fare, ma qualcosa in Svizzera è stato fatto
La fine della guerra rimane una chimera. Il Bürgenstock non farà né tacere le armi né rinsavire il presidente russo. L’aggressore, assente, aveva d’altronde mandato un grottesco messaggio alla centuria riunita sulla montagna nidvaldese: che l’Ucraina firmi dapprima la resa, che rinunci a parte del suo territorio, poi possiamo discutere di pace. Una cinica provocazione che meritava tuttalpiù un’alzata di spalle. Sarebbe stato sorprendente allora stanare nei meandri lessicali del comunicato congiunto e successive conferenze stampa qualche passo concreto verso un accordo di pace, che notoriamente non si può raggiungere senza la controparte. Sono 84 le firme apposte al testo finale che riguarda la sicurezza nucleare, il commercio e lo scambio di prigionieri oltre al rimpatrio di 20mila bimbi ucraini deportati in Russia.
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Ignazio Cassis al summit
Ci sarà verosimilmente un seguito, non si sa dove, ma ieri il presidente Zelensky ha ribadito con forza il principio – irrevocabile anche per gli altri partecipanti – dell’intangibilità delle frontiere a cui Putin ha già da tempo risposto a cannonate. Summit tradottosi di riflesso in un buco nell’acqua? No, non proprio. Forte anche delle basse aspettative, l’iniziativa promossa dalla Svizzera segna un ragguardevole successo diplomatico.
Viola Amherd e Ignazio Cassis ci hanno creduto, sono riusciti a riunire un centinaio di Paesi e organizzazioni raggiungendo due obiettivi politici: il consolidamento del sostegno all’Ucraina e la difesa dello Stato di diritto e dell’integrità territoriale degli Stati. A meno di non caldeggiare, di fronte a ingiustizie e guerre, una pilatesca lavata di mani nel lavacro della presunta neutralità, bisogna constatare che la politica estera elvetica ne esce rafforzata: Berna si scrolla di dosso quel look di pavido opportunismo che le ha consegnato una lunga storia di equilibrismi non proprio disinteressati.
Il grande limite è costituito dalla mancata cooptazione di gran parte dei Paesi del Sud globale. In una fase di profondi mutamenti dell’assetto mondiale, il conflitto ucraino rimane una faglia sismica tra Occidente e quanti dalla galassia del G7 o dell’Ocse si sentono distanti se non esclusi. Le vecchie potenze percepiscono chiaramente sul loro collo il fiato sempre più ravvicinato e insistente di quelle emergenti, che ora, imbaldanzite dal progressivo spostamento del baricentro mondiale a cui conduce inevitabilmente la globalizzazione, rivendicano una loro fetta nella grande torta planetaria.
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Un momento della conferenza di pace
Per molti degli assenti non si trattava certamente di schierarsi con l’invasore russo ma, nel nuovo “grande gioco”, di assumere maggior peso specifico di fronte a un Occidente di cui percepiscono le incongruenze: quelle della politica dei “due pesi due misure”. Lo ha ben sottolineato con prontezza ai microfoni della Rsi Carlo Sommaruga. Nel riconoscere “il bel successo della diplomazia elvetica” il vicepresidente della Commissione esteri del Consiglio degli Stati non ha mancato di ricordare che il rispetto del diritto internazionale non deve valere solo per l’Ucraina, facendo esplicito riferimento al massacro in corso a Gaza.
La credibilità del processo di pace che si vuole fare attecchire in Europa orientale si gioca in effetti anche altrove, laddove finora alla coerenza si è anteposta, sotto lo sguardo perplesso del “Sud globale”, una visione politica a geometria variabile.