Reindustrializzazione e progetti di allentare la morsa della mondializzazione hanno ancora i piedi di piombo
Se ai leader cinesi non dispiace muoversi in politica con l’ambiguità e i chiaro-scuri dell’amato “teatro delle ombre”, quelli europei si muovono spesso nei confronti dell’“Impero di Mezzo” con le indecise sfumature del grigio. Un po’ prigionieri della loro strategia: tale è infatti il legame con l’economia cinese – aiutata dalla strategia occidentale a diventare “la fabbrica del mondo” – che, nel dopo Covid, il proposito euro-americano di invertire la tendenza procede con marcata lentezza.
Reindustralizzazione e progetti di allentare la morsa della mondializzazione hanno ancora i piedi di piombo. L’Europa, per esempio, è ancora fortemente dipendente dalle tecnologie del gigante asiatico. Dipendenza che aumenterebbe di molto se si realizzasse il ritorno alla “madre patria” di Taiwan, notoriamente primo esportatore mondiale di microchip e semiconduttori sempre più indispensabili alla produzione delle nostre economie. Mentre la possibilità di superare le barriere di contenimento delle esportazioni cinesi nel vecchio continente (sempre più massicce, basti pensare alle auto elettriche) è facilitata dall’aggiramento dell’ostacolo attraverso i Paesi del Sudest asiatico.
Da oggi, e dopo cinque anni, il presidentissimo Xi Jinping è di nuovo in Europa. Non proprio in grande salute politica. Nel 2023 l’economia cinese è cresciuta al tasso annuale più debole da oltre tre decenni, il recente e previsto crack immobiliare condiziona la crescita, l’alta disoccupazione giovanile rischia di diventare strutturale, il calo degli investimenti esteri (favorito dal nuovo dettame dirigistico deciso dal Partito comunista) è una forte preoccupazione supplementare. Confucio diceva: “Meglio accendere una piccola candela che maledire l’oscurità”. Ma è ancora da vedere se e quale candela è interessato ad accendere il dittatore cinese durante il suo viaggio.
Se si tratta solo di migliorare il clima bilaterale, è generale interesse degli europei assecondarlo, come del resto ha fatto Washington. Anche perché di mezzo c’è anche il dilemma della tragedia ucraina. Si continua infatti a ritenere che la Cina abbia ancora nelle sue mani le carte migliori per favorire un processo di pace. Eppure a oltre un anno di distanza, il “piano” di Pechino, che prevede il rispetto dell’integrità territoriale delle nazioni, è finito nelle nebbie. Non a caso.
Xi Jinping è il principale beneficiario della “guerra grande”: da Mosca, che secondo gli Stati Uniti riceve sottobanco armi e componenti militari, Pechino acquista a prezzi stracciati forti quantità di petrolio, pagandolo da tre a quattro volte in meno rispetto a quello un tempo pagato dall’Europa; e un nuovo gasdotto Russia-Cina – il “Power of Siberia 2” – dovrebbe essere inaugurato entro l’anno. Né Xi intende rinunciare a portare dalla sua parte (e di quella russa) quel Sud globale (Paesi in via di sviluppo) sempre meno disposto alla collaborazione con gli Stati Uniti e i suoi alleati. Obiettivo: creare un sistema, anche monetario, alternativo a quello occidentale.
Insomma, per ora la “golden share” la detiene Pechino, non certo la sfilacciata e quindi irrilevante Europa.