Gli intellettuali hanno un ruolo politico e sociale oltre che artistico? E le associazioni di categoria devono occuparsi solo degli interessi dei membri?
Olten e Soletta sono separate da poco più di un quarto d’ora di treno. E da cinquant’anni di storia: a Soletta si tiene, nei giorni precedenti le Giornate letterarie, la tradizionale assemblea annuale dell’A*ds, l’associazione Autrici ed Autori della Svizzera che Fabio Pusterla ha deciso di abbandonare di fronte ai silenzi sui conflitti internazionali in corso; a Olten, all’inizio degli anni Settanta, si riuniva un gruppo di autori che, in segno di protesta per le posizioni reazionarie e anticomuniste dell’allora presidente della Società svizzera degli scrittori, abbandonò quell’associazione portando alla nascita, di lì a poco, del “Gruppo di Olten” che invece poneva al centro la dimensione politica della cultura.
Nel 2002 il Gruppo di Olten e la Società svizzera degli scrittori, le cui posizioni negli anni si erano riavvicinate, si fusero dando vita, appunto, all’A*ds. Ma evidentemente una diversa sensibilità sul ruolo politico e sociale di autori e autrici, e in generale dell’arte e della letteratura, è rimasta e oggi, a oltre cinquant’anni dalla separazione e venti dalla riunificazione, è riemersa. Con un singolo addio, per ora. Certo, quando intellettuali come Peter Bichsel, Friedrich Dürrenmatt e Max Frisch (giusto per citare i più conosciuti) decisero di lasciare la Società svizzera degli scrittori, lo fecero in opposizione a un presidente che tradusse in francese il manuale ‘Difesa civile’ di Albert Bachmann nel quale gli intellettuali venivano considerati – come peraltro sindacati, movimenti pacifisti e in generale la sinistra – nemici interni dello Stato (e, come si scoprì anni dopo con lo scandalo delle schedature, in quanto tali venivano sorvegliati dalla Polizia federale). Oggi l’A*ds non sostiene niente di simile e ha semplicemente un presidente che, citando l’alto numero di membri “anche di più Paesi”, afferma che l’associazione non può “prendere una posizione del genere” (così viene riportato dall’agenzia Keystone-Ats).
Nei prossimi giorni l’A*ds e il suo presidente chiariranno meglio la loro posizione, ma l’impressione è che la “posizione del genere” alla quale si fa riferimento, e che l’associazione evidentemente non può far propria, più che lo schierarsi da una parte o dall’altra riguardi semplicemente la concretezza.
Autori e autrici lavorano con le parole. Il loro lavoro ha un senso finché quelle parole hanno un senso. Se quelle parole rimangono vuote e prive di senso, il loro lavoro rimane privo di senso. Non prendere una posizione “del genere”, non entrare nel concreto di una situazione difficile e complessa come quella in Medio Oriente – non necessariamente per schierarsi, ma per costruire uno spazio di riflessione come la politica non riesce a fare – vuol dire svuotare parole come “libertà di espressione”, “rispetto dei diritti dell’uomo”, “progresso delle libertà culturali”, “contribuire all’edificazione di una società solidale”. Parole che è facile, in tempi tranquilli, mettere in altisonanti dichiarazioni (o, in questo caso, negli statuti dell’A*ds, all’articolo 2), ma che poi bisognerebbe essere pronti a far proprie anche in tempi difficili – anche con il silenzio, come fatto dalla curatrice del padiglione israeliano alla Biennale di Venezia, Ruth Patir, che manterrà chiuso quello spazio finché non sarà raggiunto un cessate il fuoco a Gaza e gli ostaggi israeliani non saranno liberati.
In alternativa, quelle parole si possono anche rimuovere, dalle altisonanti dichiarazioni – riconoscendo di essere un’associazione di categoria che si occupa dei più che legittimi interessi dei propri membri, non degli altri esseri umani.