Incastrato nel meccanismo da lui stesso creato, Netanyahu alimenta una spirale negativa e di morte. Ma forse Israele sta trovando gli anticorpi
“Always offended, never ashamed” (“sempre a offendersi, mai a vergognarsi”) è uno dei commenti apparsi sotto l’ennesimo video di vessazioni da parte dei militari israeliani nei confronti di civili palestinesi. Quattro parole che ben descrivono l’escalation dell’atteggiamento paranoico dell’ala più conservatrice di Israele e del governo Netanyahu. Ogni critica, per loro, è “antisemitismo”, ogni sberla presa un affronto e ogni bomba lanciata un atto dovuto: anche quelle che finiscono con l’incenerire chi porta cibo e aiuti umanitari.
La questione dei sette volontari uccisi a Gaza è stata liquidata dal premier israeliano con gelido distacco: “Un tragico errore, questo succede quando si è in guerra”. Come se ci fosse un’ineluttabilità intrinseca in ciò che sta accadendo, come se non fosse Netanyahu colui che – più di tutti – ha il potere di fermare le armi, come se non fosse suo l’esercito che spara a tutto quel che si muove nella Striscia.
Keystone
Un’auto dei volontari di Wck colpita dall’Idf
A ciò si aggiunge un’altra frase apparentemente innocua che, letta in controluce, è pure peggio dell’altra: “Abbiamo colpito involontariamente persone innocenti”. Netanyahu, riferendosi ai sette volontari, esclude di fatto la stragrande maggioranza delle 33mila vittime denunciate fin qui dai palestinesi: bambini, in primis, a cui è davvero difficile dare una patente di colpevolezza o connivenza con Hamas, ma anche tanti adulti che – da quel pezzo di Israele che prende decisioni – non sono visti per quel che sono, e cioè essere umani, ma anonimi pedoni da sacrificare senza pietà per arrivare a dare scacco ai re della guerriglia. Quella frase è quindi molto sbagliata. Oppure, a voler fare esercizio di sarcasmo, molto giusta. D’altronde, a pensarci bene, le persone innocenti di Gaza sono colpite perlopiù volontariamente.
Il vecchio Bibi non fa altro che ripetere – e non dall’inizio della guerra, ma da sempre – quello che direbbe un qualunque generale cattivo in una sceneggiatura pigra che ha dimenticato i grigi a favore di una lettura in bianco e nero: i buoni di qua e i cattivi di là, cowboy e indiani, israeliani e palestinesi. La banalità di Netanyahu non è solo una cieca fede in un meccanismo che lui stesso ha contribuito a creare e poi ad accelerare, ma – ironia della sorte – è sovrapponibile a quella banalità del male teorizzata proprio da un’ebrea, Hannah Arendt: una teoria che partiva dall’inconsistenza di un aguzzino come Adolf Eichmann e, per estensione, da ciò che gli ebrei avevano subito dai nazisti.
Keystone
Protesta di piazza contro il premier
Lasciando da parte scomodi paragoni storici, si può allargare l’assunto filosofico di Arendt. Per lei il nazismo era riuscito a togliere alle persone la capacità di pensare e quindi giudicare le proprie azioni. Il male diventato routine faceva il resto, deresponsabilizzando chi compiva atrocità per un mix di sopravvenuta assenza di scrupoli e assuefazione agli ordini da eseguire. O da impartire, come oggi è il caso di Netanyahu: uno che ha dimostrato da tempo di non avere scrupoli di coscienza.
Le recenti manifestazioni di piazza e il tentativo di far cadere il governo da parte del ministro Benny Gantz (un ex capo dell’Idf, non un pacifista senza se e senza ma) sono il segnale della capacità di molti, in Israele, di vedersi ancora da fuori e non riconoscersi in quel meccanismo infernale. Tutti potenziali bastoni in grado di mandare in tilt gli ingranaggi di questa reiterata banalità di guerra e, chissà, risvegliare da un sonno della ragione finora capace di generare (e far prosperare) uno come Netanyahu.