Secondo il Pl(r) lo sciopero non è cosa ticinese, bensì una disdicevole modalità d’azione importata dall’estero
A proposito della legittimità o meno dello sciopero dei dipendenti pubblici, si sono lette e sentite molteplici opinioni. E, in quanto tali, possiamo considerarle tutte più o meno legittime. Fra le tante c’è quella del Partito liberale (radicale), espressa in un comunicato ai media. In essa si legge che “lo sciopero rischia di essere controproducente”, e fin qui si può chiaramente essere d’accordo. Infatti non è questo il punto. Il dettaglio più interessante, di gusto diremmo radicalmente ‘libeghista’, arriva poco dopo. Ma, appunto, non è chiaro in che termini contribuisca a qualificare l’estensore della nota in quanto presidente di partito. E questo non è un dettaglio.
Secondo il Pl(r), o una sua emanazione ottocentesca materializzatasi tra noi sotto forma di A. S., la maggioranza dei dipendenti che “manifesta attaccamento al servizio pubblico, si trova sempre più a disagio” di fronte a quella che viene definita una “radicalizzazione d’importazione”. Il sillogismo, per quanto non esplicitato, appare abbastanza chiaro. Come dire, il lavoratore che ha a cuore il servizio pubblico non sciopera, mai, mentre chi sceglie di farlo viene meno alle proprie responsabilità, dunque non è un buon lavoratore. Per farla breve, pensare di far valere i propri diritti attraverso uno sciopero di due ore è a prescindere condannabile e qualifica come un cattivo dipendente chiunque si macchi di questa colpa. Le Officine di Bellinzona sono (ancora) lì a dimostrarlo.
Non sembra entrare in linea di conto l’eventualità, evidentemente non ancora palesatasi ai vertici del Pl(r) del terzo millennio, che un dipendente statale, proprio perché tiene alla qualità del servizio pubblico e considera urgente richiamare il proprio datore di lavoro alle sue responsabilità in tal senso, decida in piena coscienza di scioperare.
Alla faccia della Costituzione e di un secolo di diritti sociali.
Così, in piena coscienza, veniamo al secondo punto della questione. Nella suddetta nota stampa, come detto, si fa riferimento a una “radicalizzazione d’importazione”, subita dai dipendenti responsabili. E ora non è chiaro se questo argomento – ci azzardiamo a definirlo in questo modo – offenda di più l’intelligenza di un presidente o di migliaia di cittadini, anzitutto ticinesi. Anche qui il non detto appare piuttosto leggibile: se, ironia della lingua, bastano due ore per rendere “radicale” una protesta “d’importazione”, verosimilmente il lavoratore ligio al dovere sarà autoctono. Come dire che tutti i ticinesi che in quest’ultimo anno e mezzo si sono mobilitati, hanno scelto di far sentire la propria voce, arrivando oggi ad aderire allo sciopero, sono dei fantocci manipolati da non meglio precisati sobillatori stranieri.
In definitiva, ci dice il Pl(r), lo sciopero non è cosa ticinese, bensì una disdicevole modalità d’azione importata dall’estero (si vede che pure le Officine erano infiltrate dai badola). Ma è un’affermazione miope, se non mistificatoria. Il datore di lavoro contro cui molti ticinesi scenderanno in piazza oggi, infatti, non solo beneficia nella sanità, nelle scuole, nell’amministrazione dei servizi di frontalieri e “permessi B”, ma può imporre ai propri dipendenti le proprie ripetute misure di risparmio contando spesso proprio sull’acquiescenza dei tanti “non nostri” che non si metteranno mai di traverso; di chi si sente in dovere di ringraziare per ciò che, nonostante tutto, ottiene qui: di chi tanto sa che l’alternativa, ammesso che ci sia, sarebbe peggiore.