Le nostre certezze aumentano perché nelle nostre bolle vengono confermate, ma non sempre le idee coincidono con la realtà. Il Medio Oriente insegna
L’escalation bellica in Medio Oriente come manifestazione di un mondo guasto: ci racconta molto di una scena internazionale ormai malata di guerra e intolleranza, di un’epoca in cui siamo passati dalla prospettiva di miglioramento per tutti (era l’ottimistica tesi di “La fine della storia” testo di Francis Fukuyama) alla mera speranza di sopravvivenza. Inorridisce il disprezzo per la vita dei fondamentalisti islamici, spaventa pure lo svilimento simmetrico, quello decennale della destra israeliana nei confronti della popolazione palestinese.
I Greci la chiamavano hybris, l’arroganza prevaricatrice, un male punito dagli dei che veniva messo in scena ed esorcizzato nel teatro tragico, sorta di fabbrica dell’opinione pubblica. Gli eventi storici ci appaiono impietosi, ma oltre che a dirci qualcosa dell’“altro”, dei fanatici di Dio, di Nethanyahu o di Putin e dei loro crimini, sembrano dirci molto di noi stessi. Non siamo immuni dall’orgogliosa tracotanza che denunciavano Eschilo e gli altri drammaturghi ellenici, oggi però non c’è più una scena pubblica dove poter esorcizzare la nostra hybris.
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Ognuno ha la sua bolla social e la sua idea confermata
I tribunali del pensiero si chiamano social, ormai principale fonte di informazione, dove i giudici tendono a darci sempre ragione, ci confortano fornendoci le notizie che vorremmo avere, ci mettono in relazione con chi la pensa come noi. Già 60 anni fa il filosofo tedesco Hebert Marcuse aveva lanciato l’allarme in un testo di riferimento (“L’uomo a una dimensione”): stiamo perdendo il senso critico, la capacità di rimetterci in discussione. Ci stiamo impoverendo.
Le bolle cognitive ci offrono una perniciosa protezione: abbiamo ragione, per il semplice motivo che ce lo confermano i nostri siti e followers. Chi, in chiave anti-israeliana, desidera gonfiare il bilancio delle vittime dell’ospedale di Gaza godrà della perversa soddisfazione di poter picchiettare allegramente sulla tastiera addirittura “1’000 vittime”, poco importa se non vi sono conferme e se (si spera) il numero dei morti potrebbe essere inferiore a 50 (secondo fonti europee). Sul fronte opposto, non sazi dell’orrenda mattanza di Hamas, si darà subito credito alla notizia di una decapitazione di massa di bimbi ebrei. Non basta lo scempio: le belve devono apparire ancor più mostruose.
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Il parcheggio dell’ospedale dopo l’impatto
Le certezze trionfano, il “fast track” del giudizio sommario spazza via necessità di capire e dubbi, ed eccita superbia e intolleranza. Le Monde, forte di una solida documentazione satellitare e video, ci spiega che molto probabilmente non vi era un missile israeliano all’origine della tragedia. Anzi: dalle immagini si vede chiaramente che è stato colpito il parcheggio, non l’ospedale. Poco importa: Il Fatto Quotidiano campione dell’hybris in chiave giornalistica, ci informa che “l’ospedale di Al-Ahli non c’è più”! I giornali partecipano al degrado generale: nel derby tra fazioni, non sfigura La Repubblica che mostra in copertina le foto ritratto di una cinquantina di vittime, rigorosamente… israeliane.
Liberi di fronte alle nostre tastiere, siamo in realtà sempre più rinchiusi in gabbie di pensiero dove, ce lo insegnano gli psicologi statunitensi Dunning e Kruger, si rafforza a dismisura la distorsione cognitiva a causa della quale meno si è competenti, più si coltiva l’idea di esserlo. Un danno profondo che si ripercuote sul nostro vivere in società e sulla nostra democrazia.