Il presidente russo dipende dall’onnipresenza di colui che ha tentato di rovesciarlo
La controffensiva ucraina muove con cautela verso Melitopol, Berdjans’k e Bachmut, tre assi di avanzamento lunghi un centinaio di chilometri. La riconquista procede per pochi chilometri, talvolta poche centinaia di metri al giorno. L’esercito ucraino deve sminare palmo a palmo il territorio controllato dai russi e smantellare linee di difesa costruite in mesi di occupazione. Questo stallo apparente sollecita a guardare agli effetti che la guerra determina nel mondo e dentro la Russia.
Putin ha molte ragioni di non rallegrarsi. Il contesto in cui è maturato il fallito colpo di Stato in Russia del 24 giugno non è ancora chiaro. Del generale Sergej Surovikin, sospettato di collaborazionismo con la milizia Wagner di Evgenij Prigožin, autore della rivolta, si sa solo che è scomparso dalla vita pubblica. Le voci di un suo arresto emergono e scompaiono come fiumi carsici, mai confermate da fonti ufficiali. Il nome di Surovikin e quello di Igor’ Girkin (‘Strelkov’) sono solo i più celebri, tra le decine di militari e funzionari che stanno subendo condanne e rimozioni. Tra i meno noti in Occidente vi è il generale Ivan Popov, rimosso dopo che aveva espresso critiche alla conduzione della guerra. Il tratto comune dei personaggi che cadono in disgrazia è la sincerità.
Prima del fallito golpe, Putin tollerava piccoli dissensi, non è escluso che gli facessero persino comodo, per fiutare gli umori sul campo. Dopo la rivolta, le teste hanno cominciato a rotolare al minimo sgarro. Putin sta cercando di capire dove corra la cesura tra lealisti e infedeli, ma non è facile.
Sul piano internazionale la politica russa in Africa registra alcuni successi nel Sahel. Con il colpo di Stato di questi giorni in Niger (ancora in divenire), sono cinque i Paesi della regione precipitati nell’instabilità. È un copione che si ripete come una fotocopia e la Russia vi gioca un ruolo determinante, ormai innegabile. Accusando i governi legittimi di non garantire la sicurezza contro il terrorismo, salgono al potere giunte militari. Le popolazioni le acclamano sventolando bandiere russe e urlando slogan antioccidentali diffusi attraverso Internet dalla propaganda di Mosca, curiosamente uguali ovunque, dal Mali al Sudan.
Le truppe dei Paesi occidentali e persino quelle dell’Onu, chiamate pochi anni prima a furor di popolo per sostenere gli eserciti locali contro i jihadisti, vengono cacciate a malo modo. Vengono sostituite da consiglieri russi e dalla milizia Wagner di Prigožin.
Proprio qui sta la debolezza di Putin. Durante il vertice Russia-Africa della scorsa settimana a San Pietroburgo, Prigožin, formalmente esiliato in Bielorussia, si aggirava dietro le quinte stringendo le mani ai capi di Stato africani, giunti in numero largamente inferiore alle attese. Volens aut nolens, il presidente russo dipende dall’onnipresenza di colui che ha tentato di rovesciarlo. Non per questo l’Occidente può permettersi di sottovalutare le mosse di Mosca in Africa. Da lì arrivano i migranti che in Europa spingono sempre più elettori verso partiti di estrema destra, fedeli portavoce degli interessi russi nel nostro continente. Questo fine settimana, il congresso della Alternative für Deutschland, il partito tedesco che incarna questa tendenza e nei sondaggi si colloca ormai intorno al 20%, è stato un lucido specchio di queste interazioni, che superano i confini nazionali e continentali.