Riflessioni sul presente, ma visto dal futuro (o meglio, dal ‘futurismo’). Tra scuola, società, betoniere e intelligenza artificiale
Confortato dalla certezza di poterti ancora sintonizzare su una rete culturale, la tua curiosità viene catturata dall’eloquio pacato ma sicuro di un futurista. Interessante, il futurismo è una meta-disciplina che si occupa di sondare ciò che potremmo ragionevolmente attenderci dagli anni a venire in molteplici ambiti: scienza, tecnologie, marketing, geopolitica, abitudini individuali. Da decenni vi sono facoltà universitarie dedicate a questo settore di studi, anche se ciò che davvero conta non è tanto l’essere patentati, ti spiega l’intervistato, quanto l’aver accumulato esperienze che ti abbiano permesso di conoscere il mondo. Come al futurista asiatico che si è fatto un’idea sull’evoluzione della scuola. Una visione, la sua, evidentemente di respiro intercontinentale, nella quale la “trasmissione di nozioni” verrà affidata all’intelligenza artificiale, mentre l’insegnante potrà elevarsi al rango di un mentore che conduce l’allievo verso l’età adulta, piuttosto che “ripetere ogni anno a memoria lo stesso libro di testo”.
Ora, forse facilitata per via maieutica dagli ammiccamenti complici della conduttrice, emerge in te una voce angosciosa. Ad assillarla non è il futuro della scuola, ma lo sguardo futurista sul suo presente, a partire dal quale immaginare il futuro. Nel 2023, dunque, un insegnante è questo: conoscenze di qua, relazione di là, come cloruro e difosfato, frattaglie e tagli nobili. E l’allievo un cranio da riempire di “nozioni”, invariabilmente elargite dalle stesse fonti, col quale è possibile lo scambio che intercorre fra un manovale e la sua betoniera. Nella visione futurista del presente il sapere in sé non è il confronto stimolante, straniante con un’eredità condivisa, che ti parla e ti interroga attraverso la voce e il corpo, l’intelligenza e il cuore di un essere umano, per farsi motore di educazione e di civiltà, esplorazione di sé e del mondo. Visto così il presente futurista si fa distopico, ti perseguita come le gemelle di Shining: l’insegnante ripete a memoria le stesse nozioni, ripete a memoria, ripete a memoria… Non legge fuori dal libro, non osserva oltre il velo delle apparenze, non condivide sé stesso e il suo mondo affinché tu possa guardare più lontano, uscire da te per ritrovarti con occhi rinnovati.
Se è così, ti dici, datemi un’AI con cui spassionarmi. Ma il solito social ti riporta al mondo che muta attorno a te: un amico ti confida il suo malessere. Eppure, mentre cerchi le parole giuste, una domanda ti molesta: perché una foto? Perché, mentre ti scriveva di ciò che sta vivendo, ha sentito il bisogno di allegare un’immagine del suo viso, chiaramente sofferente? Ti sembra di scorgere un non detto, affilato come un taglio nella notte, l’assunto su cui poggiano, o vorrebbero poggiare, le relazioni fra gli umani del nuovo millennio: un feroce bisogno di riconoscimento, di essere colti nella propria verità, che può trovare piena comprensione solo nell’immediatezza di un’immagine, rivendicazione della propria consistenza, autentica e reale.
Ti ricordi così di Michela Marzano, che nei corpi spesso esibiti dalle adolescenti, corpi reali che si fanno virtuali o iper-reali, non legge provocazione o seduzione, ma il grido di chi chiede di essere visto, riconosciuto, accolto, riportato alla sua realtà. Il bisogno di uno sguardo che sappia superare ciò che gli offri alla vista, per trovare non il corpo, ma la persona: imperfetta, complessa, autentica.
Mentre le gemelle ti inseguono, è in una visione presentista del futuro che ti sembra di cogliere la fisionomia di una scuola in cui, al di là dei possibili artifici intelligenti, l’insegnante riconosce ciò che di più prezioso un alunno sempre più si attenderà da lui.