Mercoledì 20 settembre inizia ‘Il futuro è aperto’, ciclo di incontri dell’associazione Fare arte NEL nostro tempo. Modera Giovanni Pellegri
Lo scorso aprile, sulle pagine di questo giornale, in un articolo-intervista intitolato ‘Chi ha paura dell’intelligenza artificiale?’ ci chiedevamo se fosse legittimo supporre che in futuro l’intelligenza artificiale potrebbe prendere il controllo dell’umanità e se, in termini generali, si può sostenere che le macchine diventeranno più intelligenti degli umani. La risposta, rassicurante, era giunta da due illustri interlocutori, Barry Smith e Jobst Landgrebe, esperti riconosciuti nell’ambito dello studio dell’intelligenza artificiale e co-autori del libro Why Machines Will Never Rule the World. Artificial Intelligence without Fear (Perché le macchine non comanderanno mai il mondo. L’intelligenza artificiale senza paura). Secondo Smith e Landgrebe, l’intelligenza umana è troppo complessa e sfaccettata per essere compresa ed espressa da una macchina. Nel loro libro, i due studiosi si adoperano a illustrare come sia matematicamente impossibile che l’intelligenza macchinica superi quella umana.
Ciò non toglie che l’intelligenza artificiale è indubbiamente un tema caldo di questi tempi, che spesso lascia intravedere scenari e problematiche dai risvolti imprevedibili che fanno emergere, per utilizzare una metafora medica, un nervo scoperto della nostra società. Nelle scorse settimane, per esempio, si è molto parlato degli scioperi indetti da sceneggiatori e attori di Hollywood contro la possibilità di utilizzare l’intelligenza artificiale nella lavorazione e nella realizzazione di film e serie Tv. La minaccia, indubbiamente, esiste, ma è certamente dovuta alla maniera con la quale gli umani decidono di applicare le nuove tecnologie, piuttosto che alle qualità intrinseche delle stesse.
D’altra parte, bisogna riconoscere che nello sviluppo tecnologico e scientifico si annida il potenziale per creare nuovi futuri più a misura della nostra sensibilità. Intese in questo modo, la tecnologia e la scienza si configurano come delle sfide che si possono raccogliere e trasformare in qualcosa di positivo. È con questo spirito di sfida, e di apertura al possibile, che l’associazione Fare arte nel nostro tempo propone il ciclo di incontri e conferenze ‘Il futuro è aperto’. A inaugurare il ciclo sarà la tavola rotonda intitolata ‘Quando l’atto creativo è ideato da una macchina’ che si terrà mercoledì 20 settembre alle 18.15 nella Sala 1 del Lac a Lugano. Abbiamo incontrato Giovanni Pellegri, già conduttore del programma ‘Il Giardino di Albert’ della Rsi e responsabile de L’ideatorio dell’Usi che, per l’occasione, vestirà i panni del moderatore.
Giovanni Pellegri, ci può anticipare qualcosa della tavola rotonda? Di cosa si parlerà?
Ogni giorno moltissime persone creano testi e immagini con l’IA (l’intelligenza artificiale). Siamo così indotti a pensare, che la scrittura di una poesia, l’elaborazione di una tesi di master, la composizione di un brano musicale possano essere completamente affidati a una macchina. Ma è davvero così? Per discuterne, l’associazione Fare arte nel nostro tempo e L’ideatorio dell’USI, hanno messo attorno a un tavolo esperti di vari settori: un grande violoncellista, il Maestro Enrico Dindo, la Rettrice dell’Usi, la professoressa Luisa Lambertini, un designer, il prof. Riccardo Blumer e un esperto in IA, il prof. Luca Gambardella. Quindi di che cosa si parlerà? Credo che cercheremo di capire che cosa sia la creatività.
In effetti è quello che mi stavo chiedendo anche io: che cos’è la creatività?
Potremmo ragionare al contrario. E cioè provare a chiederci se possiamo considerare le opere e le immagini elaborate dagli algoritmi come atti creativi. Per farlo proporremo un gioco: abbiamo chiesto a una macchina di scriverci un brano musicale basato sulle sonate di Bach per violoncello. Il risultato è un’opera originale di pochi minuti che assomiglia molto a Bach ma che Bach non ha mai scritto. Durante la serata la potremo ascoltare interpretata dal Maestro Enrico Dindo. Io l’ho già ascoltata e il risultato mi ha fatto nascere alcune riflessioni.
Intende forse dire che la composizione non è di qualità?
Esatto, la prima riflessione è proprio questa. Ma attenzione, non confondiamo i risultati attuali – siamo agli albori di queste tecnologie – con la riflessione generale sulla creatività. Perché sono convinto che tra qualche anno questi algoritmi sapranno fare Bach come Bach, e questi brani sapranno emozionarci e proveremo un immenso piacere ad ascoltarli.
E la seconda riflessione, quale era?
Io credo che abbiamo dimenticato che un atto creativo non è finalizzato a un prodotto. L’atto creativo (ma lo stesso vale per l’apprendimento) non ha nulla a che vedere con la consegna del compito di geografia (scritto egregiamente da ChatGPT) o con la produzione di un volantino originale come quello che abbiamo utilizzato per promuovere la serata, elaborato anche lui dall’Intelligenza artificiale.
Quindi che cos’è, in fin dei conti, un atto creativo?
L’atto creativo è altro. È un compito che innanzitutto trasforma me stesso, mi offre nuove visioni incarnate per stare al mondo, per comprenderlo. Io potrei ripetere a memoria – leggendo un testo scritto da ChatGPT– la definizione di sviluppo sostenibile. Tutt’altra cosa è lasciarsi trasformare da un’intuizione, sperimentarla, elaborarla in prima persona. Al centro non c’è più il prodotto (il brano, il volantino, la tesi di master), ma il percorso che io svolgo, che mi cambia come persona, che va a toccare una crescita personale, un’esplorazione profonda di quel che vuole dire essere uomini. L’atto creativo non cambia solo il mondo, ma cambia innanzitutto me stesso. E così diventa cultura.
Sta forse dicendo che una macchina non è capace di creare cultura?
La migliore definizione che potremmo dare alla cultura l’aveva scritta, Giovanni Testori. “La cultura è quel che resta quando abbiamo dimenticato tutto”. Che cosa resta in una macchina di silicio quando le abbiamo tolto le definizioni copiate da Wikipedia? Che cosa resta, invece, in una persona semplice, quando le abbiamo tolto il sapere imparato a scuola? Resta un atteggiamento verso la vita. Resta la ricerca di un modo per restare al mondo e capire il senso del suo esserci. Un atto creativo e la cultura possono quindi essere dissociati dal sapere enciclopedico. La dimostrazione: abbiamo avuto grandi artisti che non sono andati a scuola.
Quindi, nonostante gli scenari e le proiezioni negative associate allo sviluppo delle cosiddette macchine intelligenti, in realtà non abbiamo nulla da temere dagli sviluppi dell’IA?
Io credo che dobbiamo essere protagonisti del cambiamento. Criticare dove c’è da criticare. Limitare se non siamo sicuri delle ricadute positive. Ma allo stesso tempo ribadire che non c’è nulla di nuovo sotto il Sole. Lo stesso problema l’aveva già sollevato Platone 2400 anni fa. Nel Fedro, in un bellissimo discorso, mette in guardia sul pericolo dell’alfabeto. Con la scrittura e i libri, il sapere non è più depositato nelle nostre menti, ma è fuori di noi, nelle biblioteche (oggi diremmo su qualche server). La scrittura sarebbe quindi da rifiutare perché promuove una cultura non incarnata, che non nasce dall’esperienza personale, ma dalla ripetizione superficiale di conoscenze scritte da altri. Quella riflessione si concludeva con questa frase: “si crederanno d’essere dottissimi, mentre per la maggior parte non sapranno nulla”. La rivoluzione digitale ci sta offendo nuovi tipi di biblioteche e di modalità di creazione di saperi. E allora stimolati da questi progressi abbiamo oggi una grande opportunità di riflessione: che cosa vuole dire imparare? Che cosa vuole dire fare scuola? Che cosa vuole dire essere sapienti? Che cos’è la cultura?
Ti-Press
Giovanni Pellegri