C’è un nesso molto forte tra la crisi delle democrazie liberali e l’avanzata dell’astensionismo
Anche dalle nostre parti si è discusso molto di costituzioni – forse perché sono il pilastro inamovibile dello Stato di diritto liberaldemocratico che le categorie dei putiniani, più o meno reconditi, ritengono finito (a ragionare sulle costituzioni proverò in un prossimo contributo) – e si è discusso pure dei cittadini che non votano o votano sempre meno. I due temi, apparentemente lontani, sono vicini e intrecciati perché l’astensionismo inceppa lo stato liberaldemocratico che fa del confronto, della critica, del cittadino attivo e ben informato il presupposto del buon funzionamento del sistema. Gaber ha riassunto: libertà è partecipazione; se non c’è – è sempre lui a dirlo – si finisce per delegare e farsi comandare. Libertà e democrazia vivono insieme e si riassumono nell’utile collettivo a cui tutti debbono concorrere. Il cittadino passivo, quello che sta in disparte sopra un albero, è il primo passo verso pericolose derive illiberali.
L’astensionismo ha tante cause, alcune fisiologiche e inevitabili: è in costante crescita e rappresenta un problema per la democrazia. In Italia, alle ultime regionali, sei cittadini su dieci si sono astenuti; da noi, se ben ricordo i dati dell’Osservatorio della vita politica regionale, siamo a quattro cittadini su dieci: è il partito più imponente. Insomma: un tempo si votavano i partiti e le persone venivano dopo, poi si sono votate le persone e i partiti venivano dopo, oggi sono tanti coloro che non votano né le persone, né i partiti. La semplificazione può sembrare eccessiva, ma illustra una tendenza.
Le ragioni dell’astensionismo? Tante. Vi è l’astensionismo fisiologico, connaturato alla democrazia, dettato da impedimenti di forza maggiore; vi è l’astensionismo frutto di disinteresse e indifferenza per la politica; vi è poi l’astensionismo frutto di "ignoranza razionale": mi astengo perché il mio voto è ininfluente sul risultato finale e non vale il tempo e la fatica necessari per una scelta informata. Ma vi è in forte crescita soprattutto un astensionismo che non deve essere ricondotto all’indifferenza: al contrario, può e deve essere considerato come "voto di reazione", "di riflesso"; rappresenta in un certo senso il volto silenzioso dell’antipolitica. Accanto alle persone che esprimono il loro disagio, più o meno rumorosamente, affidandosi ai movimenti antisistema e di protesta, vi sono cittadini e cittadine che non votano proprio per marcare il rifiuto verso un orientamento politico non condiviso e un ceto politico sfiduciato.
La sfiducia è indubbiamente generata dal malfunzionamento della democrazia rappresentativa che sembra non rappresentare più i veri bisogni degli elettori, ma essere ridotta alla stregua di una semplice democrazia elettorale (i cittadini sono corteggiati quando debbono eleggere, ma poi sono invitati a scostarsi e a lasciar lavorare i politici eletti perché la politica è affare loro: il cittadino troppo attivo e critico fuor delle elezioni è poco gradito). Osservano i sondaggisti che troppi cittadini hanno la percezione di essere esclusi dalla vita politica e dai processi deliberativi.
Un dato è certo: oggi le democrazie liberali sono screditate dall’incapacità di contenere vistose diseguaglianze sociali ed economiche. La liberaldemocrazia dovrebbe garantire l’uguaglianza dei diritti promuovendo i principi di solidarietà (vi ricordate? Liberté, Égalité, Fraternité!). L’ha fatto, ma oggi non lo fa più: i disastri del liberismo senza limiti sono ampiamente documentati, tuttavia si continua a tenere in vita l’inganno del trickle down, dello sgocciolamento della ricchezza e del "ce n’è per tutti". Colin Crouch, che è uno che se ne intende, ci dimostra che l’impressione di tanti non è campata in aria: il nostro sistema democratico in realtà è sempre più condizionato da interessi particolari, di tipo elitario. Propone perciò di parlare di postdemocrazia, dove il concetto di inclusività (l’essenza stessa della democrazia) è di fatto smentito dalla politica fattuale. Siamo, di questi tempi, in campagna elettorale, e ad ascoltare certi dibattiti di infimo livello culturale e le desolanti concioni di alcuni personaggi ci viene da dire – rubo la considerazione a Javier Cercas – che la politica è una cosa troppo importante per lasciarla nelle mani dei politici.