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Democrazie al lavoro

(Keystone)

Circostanze fortuite hanno voluto che nei due Paesi europei più significativi per la storia della democrazia moderna, Regno Unito e Francia, si siano tenute a pochi giorni di distanza importantissime elezioni politiche. Fare un confronto viene, quindi, spontaneo. Al di là del fatto che in ambedue i casi le forze della sinistra siano avanzate, macroscopiche sono le differenze. Non si può infatti non essere colpiti nell’osservare che, in forza dei differenti sistemi elettorali, i due partiti che hanno conseguito una chiara maggioranza relativa dei consensi (grosso modo un terzo dei votanti ha sostenuto, rispettivamente, i laburisti nel Regno Unito e il Rassemblement National al primo turno elettorale in Francia) abbiano ottenuto risultati assai diversi in termini di seggi parlamentari: una solida maggioranza assoluta, i primi, solo il terzo posto, ben lontani dalla maggioranza assoluta, i secondi.

A determinare questa netta differenza non è stato solo il sistema elettorale, ma anche il modo in cui è stata affrontata la votazione dal corpo elettorale e dai partiti, quale riflesso di un diverso clima politico. Nel Regno Unito, nonostante il terremoto determinato dalla Brexit, alla fine abbiamo avuto un risultato in continuità con l’alternanza tradizionale fra laburisti e conservatori. I cittadini e i partiti che li rappresentano accettano un sistema elettorale – voto per collegi con sistema maggioritario a turno unico, in cui basta la maggioranza relativa per essere eletti – che permette, come è stato il caso, a un partito che ottiene il consenso di un terzo dei votanti (un quinto degli aventi diritto di voto) di governare su tutti. Con questo sistema può anche succedere che ad avere la maggioranza assoluta dei seggi sia chi non ha neppure ottenuto la maggioranza relativa dei voti complessivi. Tutto dipende dalla loro distribuzione nei vari collegi. Inoltre i partiti minori, raramente primi nei collegi, ottengono pochissimi seggi, anche se godono di un significativo consenso nel Paese. Rousseau, critico della democrazia rappresentativa, diceva, malignamente, che gli inglesi sono sovrani solo un giorno, quello in cui votano, e poi tornano a essere sudditi: con questa regola verrebbe da dire che neppure in quel giorno la loro sovranità si esplica pienamente. Ma, ovviamente, le cose sono molto più complicate, e questo sistema ha anche i suoi vantaggi (ad esempio quello di stabilire un rapporto più stretto fra elettori e candidati e di favorire la stabilità politica). Inoltre, gli elettori possono sin da subito scegliere il cosiddetto “voto utile”, evitando di disperdere i suffragi, facendo volontariamente al primo e unico turno quello che i francesi fanno per forza al secondo. Non per nulla, il sistema politico è sostanzialmente bipartitico (conservatori e laburisti). Ma, al di là delle ‘tecnicalità’ elettorali, decisivo è il fatto che gli elettori dei partiti perdenti non giudicano che sia la fine del mondo se a governarli è un partito per cui non hanno votato e che è ben lungi dal godere del sostegno della maggioranza assoluta: un partito che sentono come avversario, ma raramente come nemico, anche perché magari l’hanno votato la volta precedente. Questo vale, in particolare, per i due maggiori partiti, che si sono storicamente avvicendati al governo.

Nessun sistema elettorale è perfetto

Completamente diverso, invece, è il caso francese. Qui, a favorire la punizione del Rassemblement non è stato solo, come era comunque prevedibile, il sistema a doppio turno, ma il fatto che la forza politica vincente al primo turno fosse ritenuta un sostanziale pericolo per la repubblica. A questo punto, la tendenza insita nel doppio turno a favorire il voto utile è stata potenziata al massimo, con la strategia della desistenza. Ciò che è significativo, e che non riguarda più solo il sistema elettorale ma il contesto politico, è la grande disponibilità dell’elettorato a recarsi alle urne una seconda volta. Di solito, in un secondo turno in cui magari il candidato preferito non ha chance o addirittura si è ritirato, la partecipazione cala sensibilmente. Questa volta, invece, è rimasta stabile e l’elettorato ha fatto sbarramento: se necessario per battere il candidato lepenista, il 70% degli elettori di sinistra coinvolti ha votato nel suo collegio candidati centristi e il 50% dei centristi, gollisti compresi, ha votato per la sinistra. La sovranità popolare si è pienamente esplicata, ma solo come volontà contraria, quasi si trattasse di un referendum sul Rassemblement National. Ora starà ai partiti e al presidente della Repubblica decidere chi governerà, piegandosi a molti compromessi, e non è detto che a essere soddisfatti del governo che alla fine entrerà in carica sia almeno un terzo dei francesi, mentre un terzo dei britannici ha già ora il governo che voleva. Paradossi della democrazia, che comunque non ne intaccano il valore. Nessun sistema elettorale è perfetto.

L’autoreferenzialità democratica

Il caso francese mostra un aspetto importante e vitale della democrazia: quello dell’autoreferenzialità democratica. La democrazia ha una dimensione fortemente riflessiva, per cui può agire su sé stessa: si può rafforzare democraticamente la democrazia, o, all’opposto, indebolirla, sfigurarla, addirittura distruggerla “democraticamente”. In passato la distruzione della democrazia, compresa la sua corrosione e dissoluzione endogena, è sempre venuta da destra, da forze reazionarie di vecchio e nuovo (fascista) stampo, contrarie al pluralismo democratico. Questa dinamica ha sostanzialmente risparmiato il Regno Unito, mentre ha coinvolto profondamente la Francia, culminando nel regime di Vichy, di cui era erede il fondatore del Front National, Jean-Marie Le Pen, padre di Marine. Il restyling tentato dalla nuova e nuovissima (Bardella) generazione di dirigenti di quel partito non ha convinto la maggioranza dei francesi, che in buona parte lo considera ancora fascista, anche se una forte e crescente minoranza lo sostiene.

L’elettorato francese ha certamente sentito il peso di un voto in cui non erano in gioco solo opzioni interne alla democrazia, ma addirittura la democrazia stessa; se non la sua esistenza, certo alcuni suoi tratti e presupposti: ad esempio il rispetto delle minoranze etniche, del pluralismo culturale, l’europeismo ecc. Insomma, la democrazia è uno strumento per risolvere pacificamente problemi e conflitti, ma ha pure un valore intrinseco: dunque per la sua difesa si può votare per chi mostra maggiore affidabilità democratica anche se, riguardo alla soluzione dei problemi, la pensa in modo molto diverso. La medesima manifestazione di tale nesso fra democrazia come mezzo e come fine è evidente nelle prossime elezioni americane, un voto pro o contro Trump, o in Italia nel giudizio sul governo della post-fascista Meloni.

La crisi è indubbia

Ma, certo, la generale tendenza al calo della partecipazione elettorale, probabilmente connessa alla convinzione diffusa fra i cittadini che la decisione democratica non contribuisca a risolvere i problemi, e la forte avanzata delle destre illiberali e xenofobe dimostrano come il riconoscimento del valore intrinseco del sistema e della cultura democratici non possa, alla lunga, essere disgiunto dalla capacità della democrazia di affrontare i problemi della società con quello spirito egualitario e inclusivo che è alla base della stessa idea democratica. L’ordine economico neoliberista dominante negli ultimi decenni non lo ha permesso. Da questo punto di vista, la crisi della democrazia è indubbia e la sua possibilità di resistere alla rabbia sociale in forse. La democrazia è favorita dalla speranza, per i più, in un futuro migliore e soffre, invece, del rabbioso rimpianto per un passato perduto. L’emancipazione politica del cittadino democratico non può essere separata da quella sociale dell’individuo in carne e ossa. Ma questo qualcuno l’aveva già detto ormai quasi due secoli fa.

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