Chi lotta con indicibile coraggio per le libertà in Iran, ha davvero troppi nemici
Poeta e Nobel per la letteratura, Joseph Brodsky, carcerato per ‘parassitismo’ e poi espulso dall’Urss, dunque uno che di dittature ne sapeva, avvertì che "dopo vent’anni di potere, una tirannia precipita immancabilmente nella mostruosità". L’Iran di oggi – che in realtà ci ha impiegato anche meno di due decenni – ne è la raccapricciante conferma. Non tanto e non solo per l’ultima pagina scritta con l’impiccagione "per spionaggio" di Alireza Akbari, ex viceministro della Difesa negli otto anni del presidente ‘moderato’ Mohammad Khatami, ma per tutto ciò che, in quattro mesi di proteste contro l’obbligo per le donne dell’hijab e per la democratizzazione del regime clericale, è accaduto nel regno repressivo degli ayatollah. Ferocia brutale di cui recentemente Amnesty International ha fatto il seguente bilancio: almeno 300 morti tra cui 44 bambini e 26 condanne a morte eseguite. Senza poter contare gli arresti in massa (comunque non meno di 1’400); le torture sui detenuti; gli stupri di ragazze trascinate in carcere; e quelle uccise dietro le sbarre, la stessa sorte toccata alla prima di loro, la 22enne curda Mahsa che indossava il velo "in modo inappropriato", finita nelle feroci mani della Gast-e Ershad, la polizia morale. A conferma, come sempre di fronte a tanta disumanità e a tanti eccessi, anche di quanto robusto sia il timore dell’autocrazia clericale di perdere il controllo del Paese per effetto della ‘khizesh’, l’‘insurrezione’ più radicale ed estesa che il Paese conosca dopo mezzo secolo di khomeinismo.
Timori al vertice che Stéphane Dudoignon, storico e autore di ‘Les gardiens de la révolution islamique’, spiega segnalando anche alcune fratture prodottesi all’interno del sistema, e soprattutto con il fatto che i principali focolai della protesta si siano prodotti in due regioni fra le più irrequiete nel rapporto con il potere centrale di Teheran. Nel Beluchistan, estremo Sud-est iraniano, per estensione la seconda delle 31 province in cui è divisa amministrativamente la nazione, dove un conflitto di ‘bassa intensità’ (con episodi di rivolta armata) è in corso da diversi anni a opera di rivoltosi di religione sunnita in contrasto con la maggioranza sciita, e dove l’imam Mowlavi Esma’ilzeyi – una delle massime autorità della minoranza – ha addirittura chiesto di processare la ‘guida suprema’ Ali Khamenei. E poi, anzi soprattutto, il timore che esploda il Khorassan, Kurdistan iraniano, dove a due riprese in passato vi furono tentativi di instaurare una Repubblica autonoma. "Prove di secessione" – ricorda il giornalista Akram Belkaid – che la teocrazia iraniana ha soffocato nel sangue (con migliaia di esecuzioni) nell’indifferenza della comunità internazionale.
È tuttavia sulla comprensione se non addirittura sulla silente complicità di potenze regionali e internazionali che conta la dittatura clericale: la Russia di Putin, che riempie di micidiali droni iraniani i propri arsenali per l’aggressione all’Ucraina; la Cina di Xi, acquirente del petrolio degli ayatollah; la Turchia di Erdogan, che partecipa alla morsa per neutralizzare i curdi persiani; e in parte gli Stati Uniti, che temono un eventuale e destabilizzante caos post-khomeinista. Chi lotta con indicibile coraggio per le libertà in Iran, ha davvero troppi nemici.