Un intero Paese che si ferma per celebrare una vittoria sportiva: è legittimo chiedersi il perché di tanta esaltazione (e provare a rispondere)
Dicembre è un mese particolarmente caldo in Argentina. Ieri a mezzogiorno a Buenos Aires c’erano poco più di 27 gradi. La "sensazione termica" invece, quell’invenzione argentina che misura la temperatura percepita, sfiorava i 30. All’Obelisco poi, in mezzo a migliaia e migliaia di tifosi che si sono radunati per accogliere i campioni del mondo (mai arrivati, poiché bloccati in strada da una marea umana di oltre 4 milioni di persone sono dovuti rientrare a Ezeiza in elicottero), meglio non pensarci.
Ci sono anche certi precedenti che, in passato, hanno inciso eccome sul rialzo della temperatura percepita, a Buenos Aires come nel resto del Paese. Vale la pena giusto ricordarne un paio.
Il primo, nel dicembre 1983: dopo quasi otto anni del buio più profondo, quello del ‘Proceso de reorganización nacional’ portato a termine dall’infame dittatura di Videla, Galtieri e Massera – che costò la vita a trentamila ‘desaparecidos’ –, l’Argentina ritorna alla vita democratica con la presidenza di Raúl Alfonsín. Da qualche parte nella mia memoria conservo il ricordo di una giornata con un caldo soffocante, in cui camminavo verso una gelateria, sventolando una bandierina biancoceleste, mentre cantavo: "Se va a acabar, se va a acabar, la dictadura militar". Avevo quattro anni. Noi bambini potevamo di nuovo cantare per strada.
Il secondo, nel dicembre del 2001: l’Argentina esce a pezzi dall’artificiosa gabbia di cristallo costruita in un decennio di governo menemista, quella della parità fittizia tra il Peso e il dollaro americano. Il governo dispone il "corralito": nessun cittadino è autorizzato a prelevare i propri risparmi dalle banche. In un Paese impoverito all’estremo e praticamente in default, scoppia la rivolta. Sono i giorni dei saccheggi e dei ‘cacerolazos’, della gente per strada con le pentole in mano a chiedere le dimissioni dell’allora presidente De la Rúa, presidente che infine scappò dal tetto della Casa Rosada. Nella ‘Plaza de Mayo’ ci guardavamo attoniti con i compagni dell’università: sapevamo di stare vivendo un momento che avrebbe segnato la vita di tutti (a me, per esempio, portò in Ticino).
Ieri la carovana albiceleste ha stupito il mondo intero: per l’affluenza, per il fervore, per il delirio… Un intero Paese che si ferma (lunedì sera il governo, in extremis, ha decretato un giorno di festa nazionale) per celebrare una vittoria sportiva, la Coppa del mondo riportata in patria da Messi e compagni 36 anni dopo le gesta di Maradona in Messico.
Sarebbe legittimo chiedersi il perché di tanta esaltazione. Dopotutto il Paese è di nuovo sull’orlo dell’abisso: l’inflazione a fine anno raggiungerà il 100%, quasi il 40% della popolazione è povera, Cristina Kirchner, attuale vicepresidente nonché personalità politica più influente della repubblica, è stata da poco condannata a 6 anni di prigione per truffa ai danni dello Stato, questo dopo essere stata vittima – sempre di recente – di un tentato omicidio durante una manifestazione pubblica. Questa è l’Argentina. Come dice la canzone che ha accompagnato la ‘Selección’ durante tutto il Mondiale: è la ‘tierra’ di Diego e Lionel, dei ‘pibes’ della folle guerra delle Malvinas, ma anche dei desaparecidos, dei cacerolazos, dell’inflazione galoppante... Dove il calcio, di fronte a tanta incertezza e a tanta sofferenza, finisce per significare tutto: rifugio, identità, riscatto, sfogo, gioia, rivalsa, passione. Che altro dire? Salud campeones!