In Ucraina si parla di piccolissimi spiragli per un tavolo negoziale magari favorito dal ‘generale inverno’. In realtà, nulla sembra meno probabile
Diceva il profeta Isaia che non può esserci "pace senza giustizia". In alternativa abbiamo solo la ‘pace d’imperio’, evocata da Bobbio e da Aron, e da loro giudicata la peggior specie di pace, in realtà violenza statica, stabilita, e non la conclusione di una guerra che permetta lo sviluppo della vita di tutti. Nella sostanza, le paci pur necessarie per porre fine a prolungate e prolungabili carneficine, sono quasi sempre imposte dalla forza. Non fece eccezione quella seguita alla Seconda guerra mondiale, che – con la firma degli accordi di Yalta – cristallizzò le conquiste dei vincitori, Usa e Urss, nuove potenze militari extra-europee, vittoria che consacrava la divisione lungo la "cortina di ferro" e il sostanziale declino politico del Vecchio Continente.
Ora, per la devastata Ucraina – otto mesi di guerra, 200mila morti sommando le vittime delle due parti – si parla di piccolissimi spiragli, flebili speranze di un non lontano tavolo negoziale, magari favorito da quel ‘generale inverno’ che può bloccare offensive e controffensive. Così vengono interpretati da più parti alcuni segnali delle ultime settimane, pur caratterizzate dall’offensiva vincente di Kiev nel Donbass. Molteplici i segnali con cui la Casa Bianca farebbe intendere l’intenzione di verificarne le possibilità, anche in dissonanza con l’alleato e protetto Zelensky: la dissociazione dall’assassinio della figlia del filosofo iper-nazionalista Dugin, i contatti diretti fra i capi degli eserciti americano e russo, il lungo incontro ad Ankara del consigliere per la sicurezza americana e il suo omologo del Cremlino, la precisazione di Biden che il sostegno di Washington a Kiev non sempre significherà ‘un assegno in bianco’, la tempestività – e sembra anche la forte irritazione – con cui lo stesso presidente Usa ha dovuto precisare che i resti dei missili piombati sulla Polonia (due morti) erano ucraini e non russi, stoppando immediatamente il pericolo di ricorso all’articolo 5 e a una risposta militare Nato.
Ma, secondo gli esperti militari, ci sarebbe un episodio ancora più significativo: il fatto che l’artiglieria di Zelensky non abbia sparato un solo colpo sui seimila mezzi e i trentamila soldati russi in ritirata da Kherson per trasferirsi e rifugiarsi sulla sponda sinistra del mitico Dnepr, il grande fiume "che fin dai tempi antichi segnava l’inizio dell’Occidente geografico nelle mappe della Rus’ originaria": uomini e mezzi in lento movimento che rappresentavano un facile bersaglio. E invece illesi. Mossa, si dice, suggerita da Washington come utile carta da mettere sul tavolo di un eventuale dialogo con emissari dello zar, comunque già umiliato per la perdita di una città simbolo e che controlla l’accesso alla penisola di Crimea.
Spiragli di una pace più vicina? In realtà, nulla sembra meno probabile. La guerra non ha ancora imposto a una delle parti l’obbligo della resa; le dichiarazioni dei nemici partono da posizioni sideralmente opposte (ritiro totale per gli ucraini, cessate il fuoco sulle posizioni acquisite per i russi); e nemmeno i volonterosi ‘costruttori di pace’ sono in grado di presentare un piano condivisibile. L’ostacolo maggiore rimane comunque una Russia mortificata che non sa come risolvere l’umiliante fallimento, ormai già accertato, della sua strategia imperialista. Mentre d’altra parte la Storia insegna anche che si può non perdere una guerra senza però vincere la pace.